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Scarica versione stampabile Sentenza ed Ordinanza

Bur n. 35 del 07 aprile 2017


RICORSO

Ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri alla Corte Costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale dei seguenti articoli: art. 33, art. 34, commi 3 e 4, art. 63, comma 7, art. 68 comma 1, art. 79 comma 1, art. 95 commi 2,4,5, art. 83, art. 111 commi 2,3,4,5,7,8, art.6, comma 5, art. 20, art. 29 commi 3 e 4, art. 30 comma 1, art. 31, comma 1 della legge della Regione Veneto n. 30 del 30.12.2016, pubblicata sul B.U.R. n. 127 del 30/12/2016 "Collegato alla Legge di stabilità regionale 2017".

Cont. 7842/2017 – 406
RIC. 28/2017

 

AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE

RICORSO

del PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato presso cui è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12

contro

REGIONE VENETO in persona del Presidente pro tempore

per la declaratoria di illegittimità costituzionale dei seguenti articoli: art. 33, art. 34, commi 3 e 4, art. 63, comma 7, art. 68 comma 1, art. 79 comma 1, art. 95 commi 2,4,5, art. 83, art. 111 commi 2,3,4,5,7,8, art.6, comma 5, art. 20, art. 29 commi 3 e 4, art. 30 comma 1, art. 31, comma 1 della legge della Regione Veneto n. 30 del 30.12.2016,

pubblicata sul B.U.R. n. 127 del 30/12/2016 “Collegato alla Legge di stabilità regionale 2017”.

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La legge n. 30 del 30.12.2016 della Regione Veneto reca le disposizioni del “Collegato alla legge di stabilità regionale 2017”.

Le norme di seguito indicate presentano profili di illegittimità costituzionale.

L’articolo 33 della legge regionale in esame dispone:

“Le gestioni liquidatorie delle disciolte Unità locali socio sanitarie di cu all’articolo 45 bis della legge regionale 14 settembre 1994, n. 55 e all’articolo 27 della legge regionale 14 settembre 1994 n. 56 sono definitivamente chiuse al 31 dicembre 2016, e le Aziende Sanitarie territorialmente competenti, a decorrere dalla data del 1° gennaio 2017, subentrano nella titolarità di tutti i rapporti giuridici e processuali delle rispettive gestioni liquidatorie delle disciolte Unità locali socio sanitarie.”.

La disposizione, nel prevedere il subentro delle Aziende sanitarie nella gestione liquidatoria delle disciolte Unità locali socio sanitarie, appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell’art. 117, comma 3 della Costituzione

L’art. 33 della legge regionale in esame si pone in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute, di cui all’articolo 6, comma 1 della legge, n. 724/1994.

L’articolo 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994 n. 724 dispone che: “In nessun caso è consentito alle Regioni di far gravare sulle aziende di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, (e successive modificazioni ed integrazioni) né direttamente né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unite sanitarie locali. A tal fine le regioni dispongono apposite gestioni a stralcio, individuando l’ufficio responsabile delle medesime.”.

L’articolo 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 stabilisce che “[…, le regioni attribuiscono ai direttori generali delle istituite aziende unità sanitarie locali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse unità sanitarie locali ricomprese nell’ambito territoriale delle rispettive aziende. Le gestioni a stralcio di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, sono trasformate in gestioni liquidatorie.”.

Quest’ultima norma esprime l’intento del legislatore che, nel disporre la trasformazione delle “gestioni stralcio” in “gestioni liquidatorie”, attribuisce, altresì, ai direttori generali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse unità sanitarie locali, di coordinare le gestioni liquidatorie con la gestione ordinaria delle aziende sanitarie. Ciò al fine di assicurare che l’esposizione debitoria delle soppresse unità sanitarie locali sia sempre tenuta distinta dalla gestione ordinaria e non possa venire a gravare su questa, come appunto disposto in via di principio dall’art. 6 c. 1 cit.

Al riguardo questa Ecc.ma Corte Costituzionale nella sentenza n. 116/2007, ha stabilito che i precetti di cui all’articolo 6, comma 1, ultima parte, della legge 724 del 1994 costituiscono principi fondamentali in materia di tutela della salute (sentenza n. 437 del 2005).

Consegue che in nessun caso la legislazione regionale può confondere la liquidazione dei pregressi rapporti delle unità sanitarie locali con l’ordinaria gestione delle ASL, al duplice fine di sottrarre le ASL al peso delle preesistenti passività a carico delle USL e di fornire ai creditori di queste ultime la necessaria certezza sulla titolarità passiva del rapporti e sulla individuazione dei mezzi su cui soddisfarsi (sentenza n. 89/200 e n. 437/2005, e sentenza n. 25/2007).

Sul punto, si espressa, più volte, anche la Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 15 maggio 2014, n. 10629), chiarendo che le gestioni stralcio (al pari di quelle liquidatorie) mantengono l’autonoma soggettività giuridica delle disciolte USL e specificando, ulteriormente, che le gestioni liquidatorie fruiscono della stessa soggettività dell’organo soppresso (Cass., SS.UU., sentenza n. 23022/2005).

Inoltre, è stato affermato il principio della continuità soggettiva tra le gestioni stralcio e gli enti soppressi durante la fase liquidatoria (Cass., sentenza n. 10135/2012).

E’ stato, altresì, ribadito  (Cons. Stato, sez VI, 22 gennaio 2001, n. 184), che “a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 30.12.1992 n. 502 e delle leggi nn. 724/1994 e 549/1995, le nuove Aziende Sanitarie locali (ASL) non sono subentrate nei rapporti obbligatori dei quali erano parti le Unità sanitarie locali (USL), essendo stati trasferiti i debiti di queste ultime alle Regioni”.

La successione ex lege delle aziende sanitarie nei debiti delle soppresse USL, inequivocabilmente disposta dalla norma impugnata in una con la cessazione al 31 dicembre delle gestioni liquidatorie, contrasta frontalmente con questo assetto di principi non derogabili dalla legislazione concorrente della regione in materia di tutela della salute.

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L’articolo 34 della legge regionale in esame modifica le legge regionale 16 agosto 2002, n. 22, recante “Autorizzazione e accreditamento della strutture sanitarie, socio sanitarie e sociali.”.

In particolare, l’articolo 34 comma 3 dispone: “alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 dopo le parole: “nei rimanenti casi” sono inserite le seguenti: “con esclusione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice.”.

Il successivo comma 4, nell’aggiungere un ulteriore comma dopo il comma 2 dell’articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22, prevede quanto segue: “2 bis. L’autorizzazione alla costruzione, ampliamento, trasformazione, trasferimento in altra sede degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice richiesta da istituzioni ed organismi a scopo non lucrativo, nonché da strutture private è rilasciata dalla Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, fatto salvo quanto disposto dall’articolo 2, comma 1, lettera g), n. 7, della legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19.”.

L’effetto della novella normativa è quello di escludere la competenza del comune in materia di autorizzazione alla realizzazione (permesso di costruire) di ospedali di comunità (definibili come una strutture sanitarie distrettuali in grado di seguire in regime residenziale e semiresidenziale una quota di popolazione che in passato afferiva alla tradizionale degenza ospedaliera; come tali dotate di caratteristiche intermedie tra il ricovero ospedaliero propriamente detto e le altre possibili risposte assistenziali domiciliari (ADI) o residenziali (RSA), e quindi classificabili come servizi sanitari extra ospedalieri), unità riabilitative territoriali (definibili come strutture di residenzialità extraospedaliera a carattere temporaneo per l’erogazione di prestazioni prevalentemente di riabilitazione neurologica e motoria per la riduzione della disabilità residua dopo eventi acuti o riacutizzazioni di patologie croniche), e hospice (definibili come strutture che permettono un ricovero temporaneo o permanente per le persone malate che non possono essere più essere più assistite in un programma di assistenza domiciliare specialistica, o per le quali il ricovero in un ospedale non è più adeguato).

La disposizione regionale nell’escludere la competenza del Comune, in materia di autorizzazione alla realizzazione degli ospedali di comunità, delle unità territoriali e degli hospice (definibili come strutture che permettono un ricovero temporaneo o permanente per le persone malate che non possono essere più assistite in un programma di assistenza domiciliare specialistica, o per le quali il ricovero in un ospedale non è più adeguato).

La disposizione regionale nell’escludere la competenza del Comune, in materia di autorizzazione alla realizzazione degli ospedali di comunità, delle unità territoriali e degli hospice, e demandando alla Giunta regionale tale competenza appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell’articolo 117, terzo comma, e 118 secondo comma, della Costituzione.

L’art.34, commi 3 e 4, della legge regionale in esame sono in contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della saluti, di cui all’articolo 8 ter del decreto legislativo, n. 502/1992.

L’articolo 8 ter, comma 3 del decreto legislativo n. 502/1992 stabilisce che: “Per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie il comune acquisisce, nell’esercizio delle proprie competenze in materia di autorizzazioni e concessioni di cui all’art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito, con modificazioni, la verifica di compatibilità del progetto da parte della regione. Tale verifica è effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di meglio garantire l’accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture.”.

La disposizione statale ora riportata intende coordinare le competenze istituzionali dei comuni in materia di rilascio dei permessi di costruire, previa verifica della compatibilità delle opere con gli strumenti urbanistici, con la programmazione sanitaria regionale. La disposizione statale chiaramente comporta, con previsione di principio, che la finalità sanitaria di una costruzione non può costituire circostanza atta a privare il comune del potere di verificarne la compatibilità urbanistica e di rilasciare il permesso di costruire. Tale potere rimane intangibile, e il suo esercizio va coordinato con la programmazione sanitaria regionale attraverso la specifica valutazione di compatibilità con la suddetta programmazione, espressa dalla regione.

L’articolo 34, commi 3 e 4, della legge regionale in esame, escludendo gli ospedali di comunità, le unità territoriali e gli hospice dalla competenza del Comune in materia di autorizzazioni alla realizzazione, contrasta con la citata normativa statale di principio, in base alla quale il Comune, in tale ambito, acquisisce, nell’esercizio delle proprie competenze, la verifica di compatibilità del progetto da parte della Regione, ma rimante titolare del potere autorizzatorio della costruzione.

Al riguardo, codesta Ecc.ma Corte Costituzionale ha recentemente ribadito che “se è condivisibile che la competenza regionale in tema di autorizzazione e vigilanza delle istituzioni sanitarie private vada inquadrata nella potestà legislativa concorrente in materia di tutela della saluti (si cui all’art. 117, comma terzo, Cost.), resta, comunque, […] precluso alle Regioni di derogare a norme statali che fissano principi fondamentali” (Corte Cost., 7 giiugno 2013, n. 132).

Inoltre, la norma regionale comporta una violazione delle prerogative comunali ai sensi dell’articolo 118, secondo comma, Cost che dispone: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.”

La previsione che l’autorizzazione alla realizzazione delle strutture sociosanitarie indicate dalla disposizione regionale in esame venga disposta direttamente dalla regione, anche dove tali strutture siano realizzate da soggetti privati, lede chiaramente l’autonomia del Comune in materia di organizzazione e governo del territorio.

Ciò in particolare perché in tale materia priva il Comune di una competenza, quale quella al rilascio dei permessi di costruire, attribuitagli direttamente dalla legge statale, in ciò violando l’art. 118 c. 2 Cost. E perché, comunque, contrasta con il principio di sussidiarietà e di adeguatezza di cui all’art. 118 c. 1. Il carattere specifica delle tre descritte strutture sanitarie, che debbono essere necessariamente di dimensioni ridotte proprio per assicurare ai particolari malati che ne abbisognano  un’assistenza, insieme, di tipo “protetto” e “non ospedaliero”, comporta infatti che le valutazioni edilizie e urbanistiche relative ad esse possano e debbano essere espresse dall’ente ordinariamente competente, cioè dal comune; e che l’intervento regionale possa e debba, quindi, limitarsi al coordinamento delle decisioni del comune con la programmazione sanitaria regionale, attraverso la verifica di compatibilità sanitaria prevista dalla norma statale interposta di cui all’art. 8 ter c. 3 d. lgs. 502/92 citato.

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Articolo 63, comma 7

L’art. 63 comma 7, inserendo il comma 1-bis all’art. 45-ter della legge regionale n. 11 del 2004, dispone che “La Giunta regionale, in attuazione all’accordo con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MIBACT) di cui agli articoli 135, comma 1 e 143, comma 2, del Codice, nelle more dell’approvazione del piano paesaggistico di cui al comma 1, procede alla ricognizione degli immobili e delle aree dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree tutelate per legge di cui, rispettivamente, agli articoli 136 e 142, comma 1, del Codice”.

La disposizione, prevedendo un procedimento differente e incompatibile rispetto alle norme interposte costituite dagli articoli 135 e 143 del codice dei beni culturali, relativi alla pianificazione paesaggistica congiunta Stato-Regione, appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, comma 2, lett. s),Cost.

L'art. 143, comma 1, del codice dei beni culturali, con disciplina dettagliata dispone che l'elaborazione del piano paesaggistico comprende, tra l'altro, la ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell'articolo 136 e all'art. 142 del codice.

L'art. 135 c. 1 del codice, a sua volta, prevede che "l. Lo Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati:

«piani paesaggistici». L'elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all'articolo 143.

comma 1, lettere b), e) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143".

La disposizione regionale, nel prevedere la ricognizione degli immobili e delle aree ad opera della Giunta Regionale viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio.

La previsione impugnata comporta l'impossibilità di applicare la norma statale appena riportata. Le aree di cui agli artt. 136 e 142 c. 1 del codice sono infatti, rispettivamente, le "bellezze di insieme" e le aree tutelate per legge ( derivanti dal c.d. "decreto Galasso"). Tali beni sono esattamente quelli contemplati dall'art. 143 c. 1 lett. b) e c) come oggetto minimo necessario del piano paesaggistico; ma sono anche quelle in ordine alle quali il riportato art. 135 c. 1 del codice prevede inderogabilmente che la pianificazione avvenga in modo congiunto tra Ministero e regioni.

Questa previsione è tale da escludere che la regione, neppure in via temporanea, possa operare unilateralmente la ricognizione dei beni e delle aree in questione.

D'altra parte, la garanzia che il piano paesaggistico congiunto sia approvato, e che quindi la fase di pendenza dell'approvazione del piano stesso non si protragga indefinitamente, sta nella previsione dell'art. 143 c. 2 del codice, ove si prescrive che l'accordo tra Ministero e regione indichi il termine entro il quale il piano dovrà essere elaborato e approvato; e che, decorso inutilmente tale termine, il piano sia approvato dal Ministro in via sostitutiva. Il comma 9 dell'art. 143 prevede, poi, comunque, una misura di salvaguardia ex lege che opera non appena il piano sia adottato dalla regione.

La disposizione impugnata, quindi, sovrapponendosi in modo incompatibile con le richiamate disposizioni statali, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di procedimenti di adozione dei piani paesaggistici.

Va ribadito, al riguardo, che la competenza a dettare le norme di legge che disciplinano la materia della tutela del paesaggio spetta in via esclusiva allo Stato.

L'intervento delle regioni in materia di beni culturali e, in particolare, per quanto qui interessa, di paesaggio, è, invece, di livello esclusivamente amministrativo (nel caso in esame, di tipo pianificatorio).

Né, infine, la suddetta disposizione appare in linea con gli obiettivi e le attività concordate e sottoscritte con il Protocollo di Intesa tra il Ministero e la Regione Veneto e con il successivo disciplinare del 2009 richiamati dalla disposizione.

Invero, l'accordo dei 15.7.2009 sottoscritto tra il Ministro dei beni culturali e il Presidente della regione ( che si produce con il presente ricorso) non prevedeva (né avrebbe potuto prevedere) alcuna competenza legislativa regionale in proposito, e nell'art. 6 si linùtava a prevedere, conformemente a quanto previsto dall'art. 143 del codice, che "Le parti si impegnano a completare l'elaborazione congiunta del Piano, ai sensi dell'art. 143 del Codice, come sostituito dall'art. 2, comma 1, lett. p) del D.lgs 26 marzo 2008, n. 63, entro il 31 dicembre 2010.

Il Piano sarà oggetto di accordo tra il Ministero e la Regione, ai sensi dell'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale ne stabilirà il termine di approvazione con provvedimento regionale e i presupposti, le modalità e i tempi per la revisione ...

Qualora il Piano non sia approvato entro il termine stabilito dall'accordo essi è approvato in via sostitutiva con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentito il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare".

Inoltre, l'art. 10 c. 3 dell'accordo prevedeva che" ... le parti si impegnano sin d'ora a completare la ricognizione indicata all'art. 143, comma 1, lett. b) e c), del Codice, ivi compresa la determinazione delle specifiche prescrizioni d'uso intese ad assicurare, rispettivamente, la conservazione dei valori espressi e la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione, entro il 31 dicembre 2009."

Come si vede, non era contemplato alcun intervento "sostitutivo" o "interinale" della regione, neanche relativamente ai beni di cui all'art. 143 c. 1 lett. b) e c), oggetto, invece, della disposizione qui impugnata; che dunque, contrariamente a quanto in essa dichiarato, non potrebbe trovare titolo neppure nell'accordo del 2009.

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Art. 68, comma 1 (Norme semplificative per la realizzazione degli interventi di sicurezza idraulica) dispone che "Gli interventi di manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d'acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariate arborea e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque possono essere eseguiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 e successive modificazioni" e della valutazione dì incidenza ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 "Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche" previa verifica della sussistenza di tali presupposti ai sensi delle disposizioni statali e regionali."

L'art. 68, disponendo la sottrazione di. alcuni interventi all'autorizzazione paesaggistica, appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, comma secondo, lettere m) e s), Cost.,

Ai sensi delle disposizioni costituzionali ora citate, attuate dagli artt. 146 e 149 del codice dei beni culturali, compete solo al legislatore statale individuare le tipologie di interventi per i quali l'autorizzazione paesaggistica non è richiesta.

In tal senso codesta Ecc.ma Corte costituzionale ha più volte stabilito che "Chiare ed inequivocabili sono, quindi, le esigenze dì uniformità della disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare - grazie al citato parametro (art. 117, secondo comma, lettera m, Cast.) - che si impongano anche all'autonomia legislativa delle Règioni" e che "non è consentito alla Regione autonoma di individuare altre tipologie di interventi realizzabili in assenza di autorizzazione paesaggistica, al di fuori di quelli tassativamente individuati dall'art. 149, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004" (sentenze n. 207 del 2012 e n. 238 del 2013).

In linea con quanto esposto l'art. 12, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, come modificato dall'art. 25, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, ha previsto che, con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, d'intesa con la Conferenza unificata, sono individuate le tipologie di interventi per i quali l'autorizzazione paesaggistica non è richiesta, ai sensi dell'articolo 149 del codice, sia nell'ambito degli interventi di lieve entità già compresi nell'allegato 1 al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (DPR n. 139 del 2010), sia mediante definizione di ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica.

La disposizione impugnata si pone chiaramente in contrasto con questi principi perché per il solo territorio della regione Veneto crea un'area di franchigia dall'autorizzazione paesaggistica per gli interventi in essa contemplati. Inoltre, la disposizione appare generica, allorché non specifica quali siano i ''presupposti" la cui verifica (non si dice da chi operata) renderebbe operante l'esonero dall'autorizzazione prevista dalle norme statali. E', infatti, formula del tutto inconsistente quella secondo cui gli interventi in questione dovrebbero essere ''finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque", giacché, rendendo rilevante solo il fine dell'intervento, ne trascura completamente le caratteristiche tecniche e l'entità materiale delle conseguenze.

Costituendo le norme, anche statali, di esonero dall'autorizzazione paesaggistica delle eccezioni al principio di cui all'art. 146 del codice, esse debbono essere, al contrario, tassativamente formulate e restrittivamente interpretate. E' invece evidente come una disposizione dalla formula ampia e indeterminata come quella in commento si traduce nell'abrogazione in concreto dell'autorizzazione per una intera classe di interventi identificati soltanto in base al loro presunto fine.

Evidente è, quindi, la sovrapposizione del legislatore regionale alla competenza statale esclusiva esercitata con gli artt. 146 e 149 del codice.

Né la disposizione può assumere un più concreto e giustificabile contenuto tramite il rinvio da essa fatto all'art. 10 1. 137/2002 e al dpr 357/97.

La legge 137/2002, nell'art. 10, conteneva soltanto la norma di delegazione in base alla quale fu adottato il codice dei beni culturali, e non dettava quindi alcuna previsione specifica in punto di esonero dalle autorizzazioni paesaggistiche; tanto meno per gli interventi sugli alvei e le sponde dei corsi d'acqua.

Il dpr 357 /97, peraltro richiamato in modo del tutto generico nella disposizione qui impugnata, reca il "Regolamento ( di) attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche". Esso, quindi, attiene strettamente alla competenza statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, sicché proprio il richiamo ad esso conferma che non vi è titolo per un intervento legislativo regionale in materia.

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L'art. 79 al comma 1, dispone che "In considerazione della gravità della crisi economica che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto, al fine di non creare disparità di trattamento con le imprese di cui all'articolo 55, comma 3, della legge regionale 27 aprile 2015, n. 6 “Legge di stabilità regionale per l'esercizio 2015", non si procede alla revoca dell'agevolazione nei casi di violazione delle lettere b ), c) e d), del comma 1 dell'articolo 20 del decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000, n. 314 "Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell'imprenditoria femminile" di cui alla abrogata legge 25 febbraio 1992, n. 215 ''Azioni positive per l'imprenditoria femminile". Sono fatti salvi i provvedimenti amministrativi già adottati, con esclusione degli accertamenti e delle procedure di riscossione coattiva non ancora concluse alla data di entrata in vigore della presente legge".

La disposizione appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, comma 1 e comma 2, lett.e) Cost.

L'art. 79 in esame lede i principi di tutela della concorrenza e perequazione delle risorse finanziarie di cui all'art.117, comma 2, lett. e) Cost., nonché il principio di conformità della legislazione agli obblighi di fonte europea, specificamente sotto il profilo del divieto di aiuti di Stato non compatibili in quanto non giustificati dalla loro concreta utilità per fini di sviluppo economico.

Con DPR del 28.07.2000, n. 314 è stato adottato il "Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell'imprenditoria femminile (n. 54, allegato 1, della legge n. 59/1997". Il Regolamento ha profondamente innovato le modalità e le procedure per la concessione dei contributi previsti dalla legge n. 215/92 "Azioni positive per l'imprenditoria femminile", rispetto al precedente Regolamento di attuazione (DM n. 706/1996).

Il D.P.R. 314/2000, all'art. 12 "Integrazione delle risorse statali da parte delle regioni" stabilisce che le regioni possono disporre un'integrazione delle quote di risorse statali, assegnando fondi propri al finanziamento delle iniziative ammissibili alle agevolazioni.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del DPR suddetto, qualora vi sia stata un'integrazione delle risorse da parte della regione, la domanda di ammissione alle agevolazioni è trasmessa dalla ditta richiedente alla regione nella quale l'iniziativa avrà luogo.

Il successivo comma 3 recita "La regione· .... provvede all'esame delle domande verificandone, in particolare, la completezza, il contenuto, la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla legge e dal presente regolamento, nonché la validità tecnica, economica e finanziaria del progetto e, ove le caratteristiche di questo lo consentano, il relativo impatto ambientale".

Infine, ai sensi del comma 9, art. 13 del DPR n. 314/2000, la regione, inserite in graduatoria le domande ritenute ammissibili, approva le suddette graduatorie e provvede a trasmetterle al Ministero, il quale a sua volta provvederà a pubblicarle.

Nell'ipotesi sopradescritta rimane in capo al Ministero la funzione di emanazione delle norme generali regolatrici del procedimento di ripartizione delle risorse e quella di coordinamento operativo dell'attività delle regioni, nonché la pubblicazione delle graduatorie da queste approvate, che non comporta alcuna valutazione di merito sulle stesse.

La procedura agevolativa viene invece gestita dalle Regioni, ivi compresa l'adozione dell'eventuale provvedimento di revoca.

Ai sensi del successivo art. 20, comma 1, infatti, "le regioni o le province autonome, ovvero il Ministero nel caso in cui le regioni non abbiano provveduto all'integrazione delle risorse statali di cui all'articolo 12, comma 1, provvedono alla revoca totale o parziale delle agevolazioni concesse ... ", in particolare nei casi di cui:

alla lettera b) qualora "i controlli effettuati evidenziano l'insussistenza delle condizioni previste dalla legge o dal presente regolamento, ovvero il venir meno delle condizioni stabilite dall’articolo 2, comma 1, lettera a), della legge, in ordine alla presenza femminile nell'impresa";

alla lettera c) qualora "i beni oggetto dell'agevolazione risultano essere stati ceduti, alienati o distratti, nei cinque anni successivi alla data di concessione dell'agevolazione"; alla lettera d) qualora "gli elementi che hanno determinato l'attribuzione del punteggio per l'inserimento in graduatoria subiscano variazioni superiori ai limiti di scostamento indicati con il decreto di cui all'articolo 10, comma 2".

Ciò premesso, la norma regionale in esame introduce una deroga alla disciplina statale stabilendo in sostanza che "in considerazione della gravità della crisi economica che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto", nei casi descritti non si procede alla revoca e al recupero dell'aiuto, o al recupero degli aiuti già revocati.

Tale previsione, nella sua assoluta genericità, nel merito non giustifica il mancato recupero di risorse pubbliche erogate e non utilizzate nel rispetto della normativa vigente e pertanto, appare arbitraria e priva di un fondamento giustificativo che possa sorreggere la differenziazione normativa introdotta a favore delle sole imprese venete ammesse ai benefici in questione. La revoca, nei casi sopra indicati, è un provvedimento vincolato che non può mai essere omesso; mentre il recupero conseguente alla revoca può essere escluso solo attraverso eccezionali valutazioni caso per caso, che documentino l'impossibilità concreta di procedervi.

Le decisioni di revoca non possono mai essere omesse, e quelle di recupero non possono non essere adottate per decisione regionale basata sulla sola "considerazione della gravità della crisi che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto". Come è evidente, ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle altre imprese presenti su tutto il territorio nazionale, parimenti coinvolte nella grave crisi economica e per le quali occorre garantire il medesimo trattamento nel rispetto delle regole della concorrenza. Concorrenza che, già inevitabilmente alterata dalla concessione di queste forme di aiuto ( considerate compatibili solo perché finalizzate all'obiettivo di interesse generale di promuovere l'imprenditoria femminile), impone che i presupposti per le revoche siano uguali in tutto il territorio nazionale, e che i relativi provvedimenti siano adottati in tutti i casi.

Quanto allo specifico profilo dell'esclusione dei recuperi, va poi osservato che la concessione degli aiuti in questione ha comportato un rilevante esborso di risorse pubbliche, che avrebbero potuto essere utilizzate da altre imprese presenti nella regione ed invece rimaste escluse dai finanziamenti. Tali risorse, una volta accertatone il cattivo uso da parte del beneficiario, debbono quindi essere recuperate per essere rimesse a disposizione delle iniziative di sostegno allo sviluppo economico, e per ristabilire condizioni di corretta concorrenza, indubbiamente alterate dall'erogazione degli aiuti a soggetti che li hanno utilizzati in modo difforme dalla finalità che li aveva giustificati.

La giustificazione della norma impugnata non potrebbe essere ravvisata neppure nel riferimento che essa fa alle ipotesi contemplate dall'art. 55 c. 3 della legge regionale n. 6/2015; ipotesi che imporrebbero, stando alla norma impugnata, di evitare disparità di trattamento.

In realtà, l'art. 55 c. 3 1. reg. 6/2015 cit. dispone che "3. Nei casi di violazione dell'articolo 20, comma 1, lettere b) e c) del decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000, n. 314 "Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell'imprenditoria femminile", si procede alla revoca parziale delle agevolazioni in relazione al periodo di mancato utilizzo dei beni nella destinazione originaria o di mancato mantenimento delle condizioni che hanno determinato la concessione del beneficio. Dalla data di entrata in vigore della presente legge non producono effetti gli eventuali provvedimenti di revoca totale già adottati."

Non si vede come una disposizione (anche ammesso che sia costituzionalmente legittima) che prevede la revoca parziale degli aiuti non utilizzati in conformità, cioè non estesa anche al periodo in cui vi fu utilizzazione conforme, possa giustificare "per parità di trattamento" la rinuncia totale alle revoche e ai recuperi in tali casi.

Inoltre, sotto altro aspetto, omettere le revoche o i recuperi degli aiuti esclusivamente in considerazione della crisi economica e produttiva, comporterebbe trasformare le misure in questione in aiuti di tipo diverso: da aiuti allo sviluppo dell'imprenditoria femminile ( di cui peraltro si è costatata la mancata utilizzazione specifica, tanto che si sono verificati i presupposti per la loro revoca), essi si trasformerebbero in aiuti "di mero funzionamento" finalizzati a consentire alle imprese dì ridurre i costi asseritamente derivanti dalla crisi economica e produttiva. Come tali, essi dovrebbero essere previamente sottoposti alla valutazione della Commissione europea ai sensi dell'art. 107 TFUE. Evidente è quindi, anche sotto questo profilo, il contrasto della norma impugnata con i principi di concorrenza e di conformità alle regole europee.

Quanto sopra per il contenuto di merito della norma impugnata.

Ma prima ancora essa è viziata da incompetenza.

Come si è visto, il dpr 314/2000 costituisce una manifestazione della competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza, perché mira a determinare condizioni uniformi nel territorio nazionale quanto all'erogazione degli aiuti pubblici in questione, che attengono ad una finalità di politica economica di rilevanza certo nazionale e non locale, come è la promozione dell'imprenditoria femminile.

E' quindi precluso in via di principio alle regioni adottare norme legislative nella medesima materia. L'intervento delle regioni può attuarsi soltanto al sopra descritto livello amministrativo, di concreta istruttoria sulla concessione e sulla revoca dei benefici previsti dalla legge statale, e ciò, inoltre, sul presupposto che la regione abbia in parte finanziato gli interventi stessi, integrando le risorse messe a disposizione dal bilancio statale.

La mera circostanza che le regioni si siano inserite nell'intervento statale di sostegno, integrandone le risorse, non può di per sé valere a fondare una competenza legislativa regionale in materia, essendo evidente che l'intervento rimane di iniziativa e di competenza statale.

da ultima rendicontazione fornita dai competenti uffici della regione Veneto, risulta pari a € 5.888.151,667, e non a € 4.500.000,00, come riportato nel comma 2, dell'art. 79 in esame.

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L'articolo 95, recante "Prime disposizioni in materia di pianificazione regionale delle attività di cava" nel dettare alcune disposizioni per la disciplina delle attività estrattive, al comma 2, lett. a) regola le attività di lavorazione e stoccaggio presso cave non estinte dei materiali di scavo derivanti dalla realizzazione di opere pubbliche, prevedendo che queste ultime attività sia consentite soltanto per materiali qualificabili come sotto prodotti ai sensi della normativa vigente (L.R. n. 30/2016).

La disposizione prevede infatti che "2. È consentito, previa autorizzazione della struttura regionale competente in materia di attività estrattive, lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave non estinte, di materiali da scavo costituiti da sabbie e ghiaie, provenienti dalla realizzazione delle opere di cui al comma 1, con almeno 500.000 metri cubi di materiale di risulta, ove sussistano le seguenti condizioni:

a)  i materiali sono qualificabili come sottoprodotti ai sensi della vigente normativa;

b)  i materiali conferiti sono equiparabili per tipologia al materiale costituente il giacimento coltivato nella cava."

Al comma 4 vieta per un periodo di 9 anni l'autorizzazione di nuove cave di sabbia e ghiaia, prevedendo che "4. Per un periodo di nove (9) anni non può essere autorizzata l’apertura di nuove cave di sabbia e ghiaia".

Al comma 5, consente l’ampliamento delle cave di sabbia e ghiaia non estinte, ma lo condiziona alla presenza di taluni requisiti essenziali, tra cui un limite massimo determinato a priori dei volumi complessivamente assentiti ai singoli operatori richiedenti (lett. a), e una soglia massima prestabilita (di validità almeno triennale) dei volumi estraibili in ampliamento per ciascuna Provincia (lett. d). Si prevede infatti che "5. Sono consentiti i soli ampliamenti di cave di sabbia e ghiaia, non ancora integralmente estinte ai sensi dell'articolo 25 della legge regionale 7

settembre 1982, n. 44, quali aree di cui all'articolo 5, lettera a) della legge regionale 7 settembre 1982, n. 44, nel caso ricorrano le seguenti condizioni:

a)  l'impresa richiedente sia titolare di autorizzazioni di cava per sabbia e ghiaia che, nel complesso, non presentino un volume residuo estraibile superiore a cinquecentomila metri cubi;

d)  ai fini di cui all'articolo 5, lettere b) e c) della legge regionale 7 settembre 1982, n. 44, i volumi autorizzati in ampliamento ai sensi del presente comma 5, non superino complessivamente 8,5 milioni di metri cubi così suddivisi: 4,5 milioni di metri cubi per il territorio della provincia di Verona e 4 milioni di metri cubi per il territorio della provincia di Vicenza. Tali previsioni, ai sensi dell'articolo 7 della legge regionale 7 settembre 1982, n. 44, sono novennali e soggette a revisione almeno ogni tre anni e comunque ogni qualvolta se ne determini la necessità".

La previsione dell'art. 95, commi 2, 4 e 5 appare costituzionalmente illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s) Cost.; violazione degli artt. 3 e 41 Cost; violazione dell'art. 117 comma 2 Cost.

La disposizione regionale di cui al comma 2 incide nell'ambito della disciplina del trattamento dei sottoprodotti previsto dall'art. 184 bis del d.lgs. N. 152/2006, che rientra nella competenza esclusiva statale in materia di ambiente.

Lo smaltimento delle terre e rocce da scavo è infatti materia di legislazione statale esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost..

Tale principio è stato reiteratamente affermato da una serie di recenti sentenze di codesta Corte Costituzionale (n. 232 del 2014; n. 70 del 2014; n. 300 del 2013), ove si legge: "la disciplina delle procedure per lo smaltimento delle rocce e terre da scavo attiene al trattamento dei residui di produzione ed perciò da ascriversi alla "tutela dell'ambiente", affidata in via esclusiva alle competenze dello Stato, affinché siano garantiti livelli di tutela uniformi su tutto il territorio nazionale". Pertanto, «in materia di smaltimento delle rocce e terre da scavo non residua alcuna competenza - neppure di carattere suppletivo e cedevole - in capo alle Regioni e alle Province autonome in vista della semplificazione delle procedure da applicarsi ai cantieri di piccole dimensioni» (sentenza n. 232 del 2014).

La disposizione impugnata contrasta chiaramente con questi principi, allorché sul solo presupposto che il materiale provenga da cantieri di opere pubbliche, sia classificabile come sottoprodotto e non come rifiuto, e presenti tipologia equiparabile al giacimento coltivato nella cava, consente senz'altro lo stoccaggio in cava del suddetto materiale.

La disciplina statale, di competenza esclusiva ex art. 117 c. 2 lett. s) Cost., in materia di «sottoprodotti» da scavo è contenuta negli artt. 183, comma 1, lettera qq), e 184 - bis del decreto legislativo n. 152 del 2006 e nel decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161 (Regolamento recante la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo).

In particolare quest'ultimo decreto stabilisce, come principi fondamentali, che i materiali e le rocce da scavo debbano essere estratti, utilizzati, riutilizzati esclusivamente in attuazione di un apposito "piano di utilizzo" (art. 5 decreto cit.), e che ne sia sempre garantita la caratterizzazione, cioè l"'attività svolta per accertare la sussistenza dei requisiti di qualità ambientale dei materiali da scavo in conformità a quanto stabilito dagli Allegati 1 e 2" (art. l, lett. g) decreto cit.),

Queste regole valgono anche per i materiali da scavo costituenti sottoprodotti. L'art. 4 del decreto stabilisce infatti nei commi 1 e 2 che "1. In applicazione dell'articolo 184-bis, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni, è un sottoprodotto di cui all'articolo 183, comma I, lettera qq), del medesimo decreto legislativo, il materiale da scavo che risponde ai seguenti requisiti:

a)  il materiale da scavo è generato durante la realizzazione di un'opera, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;

b)  il materiale da scavo è utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo:

1)  nel corso dell'esecuzione della stessa opera, nel quale è stato generato, o di un 'opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali;

2)  in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;

c)  il materiale da scavo è idoneo ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale secondo i criteri di cui all'Allegato 3;

d) il materiale da scavo, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla precedente lettera b ), soddisfa i requisiti di qualità ambientale di cui all'Allegato 4.

2. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 del presente articolo è comprovata dal proponente tramite il Piano di Utilizzo."

E' evidente come la disposizione impugnata, consentendo indiscriminatamente la destinazione dei sottoprodotti di scavo a stoccaggio in cava, sulla sola base del generico accertamento che i materiali siano "equiparabili" a quelli coltivati nella cava di stoccaggio, vanifica del tutto la previsione del piano di utilizzo; e in particolare la garanzia che i sottoprodotti in questione, attraverso la opportuna caratterizzazione, presentino i requisiti di qualità ambientale di cui all'allegato 4 del decreto citato.

Lo stoccaggio a tempo indeterminato in cave solo "equiparabili" vanifica poi la previsione del decreto secondo cui, decorso il termine di utilizzo previsto dal piano di utilizzo, il materiale di scavo perde la qualifica di sottoprodotto e viene qualificato come rifiuto, con applicazione della pertinente legislazione di tutela ambientale (art. 5, commi 6, 7, 8, 9 decreto cit.).

E' quindi evidente come con la disposizione impugnata la regione si sia sovrapposta alla disciplina statale esclusiva in tema di stoccaggio dei sottoprodotti da scavo.

Il comma 4 della legge regionale vieta per un periodo di 9 anni l'autorizzazione di nuove cave di sabbia e ghiaia.

La norma disponendo un'aprioristica ed indiscriminata sospensione del rilascio dei suindicati titoli minerari, impedisce per un lasso di tempo non trascurabile sia l'avvio di nuove iniziative nello specifico settore estrattivo, sia l'esperimento delle procedure di valutazione di compatibilità correlate a progetti futuri, previste dall'art. 7 del decreto legislativo n.152/2006.

In tal modo si determina un effetto sostanzialmente interdittivo rispetto alle attività di coltivazione di nuove cave di inerti, eludendosi perciò l'obbligo di ponderazione di ciascuna proposta progettuale, anche in relazione alle rispettive alternative praticabili, imposto dalla normativa in tema di VIA riconducibile alla potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117, comma 2 lett. s) Cost.

Al riguardo codesta Ecc.ma Corte Costituzionale ha stabilito che ( ••• ) le discipline relative alla valutazione di impatto ambientale debbono essere ascritte alla materia della «tutela dell’ambiente» in ordine alla quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 67 e n. 1 del 2010, n. 234 e n. 225 del 2009)" (Corte Cost. n. 199/2014).

La Corte ha già ritenuto l'illegittimità costituzionale, alla luce del dettato dell'art. 117, comma 2 Cost. e della disciplina comunitaria in materia ambientale, di norme regionali, che disponevano dell'efficacia di titoli minerari in assenza di procedure di valutazione di impatto ambientale, in base all'assunto che “( ••• ) una tale disciplina potrebbe «mantenere inalterato lo status quo, sostanzialmente sine die, superando qualsiasi esigenza di "rimodulare" i provvedimenti autorizzatori in funzione delle modifiche subite, nel tempo, dal territorio e dall'ambiente» (sentenza n. 67 del 2010), e sarebbe, quindi, «atta ad eludere l'osservanza nell'esercizio dell'attività di cava della normativa di VIA» ( sentenza n. 246 del 2013) dettata dallo Stato in un ambito riservato alla sua competenza legislativa esclusiva."

Inoltre, l'art. 95, comma 4, contrasta con il combinato disposto degli artt. 3, comma 1 e 41 della Costituzione, in quanto le limitazioni di carattere normativo all'iniziativa economica privata, ancorché astrattamente legittime, debbono perseguire finalità di utilità sociale, sicché esse non possono che essere informate ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Ciò premesso, il generalizzato novennale divieto di rilascio dei provvedimenti, sebbene astrattamente volto ad un fine di utilità sociale, quali gli scopi di tutela dell'ambiente (enumerati al comma 1 dell'art. 95 L.R. 30/2016), non può ritenersi conforme a ragionevolezza e proporzionalità, in quanto impedisce in limine l'esame delle ricadute ambientali e delle specifiche soluzioni tecniche relative alle singole proposte progettuali, precludendo l'assunzione di misure proporzionate rispetto al concreto contenuto di ciascuna istanza di coltivazione mineraria.

Codesta Corte Costituzionale, investita della questione relativa all'asserita violazione del diritto alla libertà di iniziativa economica, "ha costantemente negato che sia «configurabile una lesione della libertà d'iniziativa economica allorché l'apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all'utilità sociale», purché, per un verso, l'individuazione di quest'ultima «non appaia arbitraria e che, per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue» (da ultimo, sentenza n. 167 del 2009)." (cfr. Corte Cost. sent. n. 152/2010).

Tale è il caso di specie, in cui la norma regionale, da un lato sostanzialmente vieta nuove iniziative economiche nel settore delle cave; e dall'altro, rendendo correlativamente dominante la posizione degli attuali titolari di autorizzazione alla coltivazione di cave, arreca a questi un beneficio sproporzionato e irragionevole, anche rispetto alla stessa enunciata finalità di protezione dell'ambiente: lo sfruttamento esasperato delle cave esistenti, non più bilanciabile dall'apertura di nuove cave e dalla chiusura e ricomposizione delle cave preesistenti, non può infatti che tradursi in un maggior pregiudizio complessivo all'ambiente stesso, di cui non è più programmabile un equilibrato utilizzo.

Il comma 5 della legge regionale in epigrafe, pur consentendo l'ampliamento delle cave di sabbia e ghiaia non estinte, lo condiziona alla presenza di taluni requisiti essenziali, ivi compresi un limite massimo determinato a priori dei volumi complessivamente assentiti ai singoli operatori richiedenti (comma 5 lett. a), nonché una soglia massima prestabilita ( dì validità almeno triennale) dei volumi estraibili in ampliamento per ciascuna Provincia (comma 5 lett. d).

Le previste limitazioni all'esercizio delle iniziative imprenditoriali, concernenti l'ampliamento di preesistenti cave di inerti, derivanti dall'applicazione dell'art. 95 1.r. 30/2016, collidono con la competenza esclusiva statale ex art. 117, comma 2 Cost. in materia di tutela della concorrenza; e comunque con la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente ex art. 117 c. 2 lett. s).

Com'è noto, infatti, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160/2009, n. 430 e n. 401 del 2007)».

Anche in questo caso, si assiste ad una irragionevole limitazione quantitativa e temporale dell'attività economica di cava che non può di per sé rispondere ad una effettiva finalità di tutela dell'ambiente; tale tutela, nel sistema delineato dal d. lgs. 152/2006, può infatti attuarsi solo attraverso una gestione pianificata delle risorse ambientali, e non attraverso rigide predeterminazioni legislative delle modalità di tale gestione che, in quanto non precedute da specifica istruttoria e non modificabili se non attraverso un nuovo iter legislativo, in caso di impatto negativo delle misure sono suscettibili di recare danni irreversibili all'ambiente.

Non potendo giustificarsi con finalità di tutela ambientale (comunque rimesse alla legislazione statale esclusiva), le previsioni dell'impugnato comma 5 si risolvono quindi in irragionevoli restrizioni della libertà di iniziativa economica e della concorrenza.

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L'art. 83 (Limitazione degli interventi sul fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa) dispone (enfasi aggiunta): "l. Al fine di facilitare l'accesso al credito delle piccole e medie imprese (PMI), tenuto conto dell'operatività del fondo regionale di garanzia di cui all'articolo 2, comma 1, lettera e), della legge regionale 13 agosto 2004, n. 19 "Interventi di ingegneria finanziaria per il sostegno e lo sviluppo delle piccole e medie imprese", la Giunta regionale è autorizzata ad avviare le procedure per limitare nel territorio della Regione del Veneto l'intervento del fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 "Misure di razionalizzazione della finanza pubblica", alla controgaranzia delle garanzie emesse dal predetto fondo regionale e di quelle emesse dai consorzi di garanzia fidi, aventi sede operativa in Veneto ai sensi dell'articolo 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 "Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59".

2. La limitazione dell'intervento del fondo di garanzia di cui al comma 1 è richiesta in via sperimentale per un periodo massimo di anni due e per operazioni di importo fino a 100.000,00 euro e potrà conformarsi alle evoluzioni della normativa che regola il funzionamento del fondo di garanzia di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge n. 662 del 1996.".

La norma regionale, come si vede, autorizza la giunta regionale ad avviare le procedure per limitare nel territorio della regione Veneto l'intervento del fondo di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (secondo cui "2. 100. Nell'ambito delle risorse di cui al comma 99, escluse quelle derivanti dalla riprogrammazione delle risorse di cui ai commi 96 e 97, il CIPE può destinare:

a)  una somma fino ad un massimo di 400 miliardi di lire per il finanziamento di un fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa allo scopo di assicurare una parziale assicurazione ai crediti concessi dagli istituti di credito a favore delle piccole e medie imprese") alla sola controgaranzia delle garanzie emesse dal fondo regionale costituito ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge regionale 13 agosto 2004, n. 19 e di quelle emesse dai consorzi garanzia fidi, aventi sede operativa in Veneto, ai sensi dell'articolo 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

Tale ultima disposizione prevede, invero, che la Conferenza Unificata di cui all'art. 8 del D.lgs. 281/97, possa individuare con apposita delibera, tenuto conto dell'esistenza di fondi regionali di garanzia, le regioni sul cui territorio il fondo limita il proprio intervento alla controgaranzia dei predetti fondi regionali e dei consorzi di garanzia collettiva fidi di cui all'articolo 155, comma 4, del decreto legislativo l0 settembre 1993, n. 385.

I commi 4 e seguenti dell'art. 155 cit. così descrivono i consorzi di garanzia collettiva fidi o "Confidi":

"4. I confidi, anche di secondo grado, sono iscritti in un'apposita sezione dell'elenco previsto dall'articolo 106, comma 1. L'iscrizione nella sezione non abilita a effettuare le altre operazioni riservate agli intermediari finanziari iscritti nel citato elenco. A essi non si applica il titolo V del presente decreto legislativo.

4-bis. Il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Banca d'Italia, determina i criteri oggettivi, riferibili al volume di attività finanziaria e ai mezzi patrimoniali, in base ai quali sono individuati i confidi che sono tenuti a chiedere l'iscrizione nell'elenco speciale previsto dall'articolo 107. La Banca d'Italia stabilisce, con proprio provvedimento, gli elementi da prendere in considerazione per il calcolo del volume di attività finanziaria e dei mezzi patrimoniali. Per l'iscrizione nell'elenco speciale i confidi devono adottare una delle forme societarie previste dall'articolo 106, comma 3.

4-ter. I confidi iscritti nell'elenco speciale esercitano in via prevalente l'attività di garanzia collettiva dei fidi.

4-quater. I confidi iscritti nell'elenco speciale possono svolgere, prevalentemente nei confronti delle imprese consorziate o socie, le seguenti attività:

a) prestazione di garanzie a favore dell'amministrazione finanziaria dello Stato, al fine dell'esecuzione dei rimborsi di imposte alle imprese consorziate o socie;

b) gestione, ai sensi dell'articolo 47, comma 2, di fondi pubblici di agevolazione;

c) stipula, ai sensi dell'articolo 47, comma 3, di contratti con le banche assegnatarie di fondi pubblici di garanzia per disciplinare i rapporti con le imprese consorziate o socie, al fine di facilitarne la fruizione."

Vi è dunque una situazione di concorrenza nel mercato delle garanzie fidi tra il Fondo di garanzia istituito presso il Mediocredito centrale e i Confidi 1.

 

Le indicazioni procedurali per l'adozione della menzionata deliberazione da parte della Conferenza Unificata sono state individuate nella seduta del 16.01.2001 con l'atto di repertorio n. 486 allo scopo di assicurare, tra l'altro, omogeneità nella valutazione dei sistemi di garanzia operanti a livello locale e parità di trattamento tra le PMI operanti sul territorio nazionale.

L'art. 2 del citato atto della Conferenza Unificata stabilisce che la regione interessata presenti apposita richiesta correlata da una relazione tecnica descrittiva delle caratteristiche del sistema di garanzia operante sul proprio territorio, sulla cui base la Conferenza valuta l'adozione della deliberazione di cui all'art. 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

 

1 Tutte le PMI (secondo la definizione europea e cioè le imprese che vanno dalla ditta individuale alla società con max 250 dipendenti, un fatturato di max 50 mln di euro, max 43 milioni in attivo sullo Stato Patrimoniale) "economicamente e finanziariamente sane" possono usufruire dei fondi accantonati dal Ministero del Tesoro e assegnati in gestione al Medio Credito Centrale in Roma per ottenere garanzie a copertura dei crediti che ottengono dal sistema bancario.

Tali garanzie hanno la caratteristica di essere a prima richiesta e, per le banche, vengono conteggiate a "ponderazione zero" il che significa che per la quota coperta dalla garanzie non occorre che la banca accantoni patrimonio a copertura dell'eventuale perdita.

Infatti è lo Stato pagatore di "ultima istanza" e quindi si fa garante della solvibilità del sistema della PMI. Questa garanzia può essere richiesta in forma diretta dalla Banca stessa al momento in cui ritiene di affidare l'impresa. Sotto forma di controgaranzia se la banca è già garantita da un Confidi che provvede a sua volta a farsi garantire dal Fondo.

Oppure come cogaranzia quando il Confidi e il Fondo stesso intervengono congiuntamente a coprire il rischio della Banca.

È evidente che il "peso" di tali garanzie rende più agevole l'accesso al credito da parte dell'impresa e concorre a determinare un più vantaggioso costo del credito bancario.

Ovviamente possono accedere a tale garanzia le PMI che ottengano una valutazione positiva la quale viene assegnata secondo parametri definiti dal gestore del Fondo stesso. La garanzia copre dal 60 al 70% del credito concesso ed è finalizzata sia per investimenti che per liquidità e/o partecipazioni di capitale. Le imprese femminili sono avvantaggiate sia nell'intensità di aiuto che nel costo che si deve riconoscere al gestore del fondo all'atto dell'ottenimento della garanzia.

 

La previsione autorizzativa di cui al comma 1 dell'art. 83 della legge regionale in esame, nella parte in cui circoscrive l'intervento in controgaranzia del Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale alle sole garanzie rilasciate dai Confidi aventi sede operativa in Veneto appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione; art 3 e art. 120 comma 1,art.117 comma 2 lett e) Cost.

Con numerose pronunce la Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, in casi analoghi, ha evidenziato le conseguenze anticoncorrenziali derivanti dalla previsione per legge e/o per atto amministrativo attuativo di disposizioni di legge regionale, di vincoli a carattere territoriale imposti ai Confidi ai fini dell'accesso a contributi pubblici (AS732 del 19.07.2010, AS920 del 20.03.2012, AS 1090 del 28.10.2013; da ultimo AS1190 del 18.05.2015 in Bollettino AGCM n. 17 del 18.5.2015, ove si legge:

"La richiesta che il numero minimo di imprese consorziate necessario per partecipare all'attribuzione dei fondi abbia sede legale e/o unità locali nella provincia di Padova, invece, rischia di contrastare il naturale e efficiente processo di aggregazione a livello nazionale impedendo a un confidi efficiente, che però operi prevalentemente in un diverso ambito territoriale e che quindi non disponga di 500 imprese consorziate aventi unità operative in provincia di Padova, di partecipare alla ripartizione dei fondi. Tale requisito potrebbe al contrario favorire una compartimentazione addirittura provinciale recando un grave problema concorrenziale.

L'Autorità ritiene, pertanto, che la deliberazione della Giunta n. 206/2014 e l'Avviso Pubblico della CCIAA di Padova integrino una violazione dei principi a tutela della concorrenza nella misura in cui contemplano limiti all'accesso ai fondi basati su requisiti di natura regolamentare, finanziaria e geografica che appaiono in contrasto con l'art. 1, comma 55, L. 27 dicembre 2013 n. 147 (Legge di stabilità 2014) e consentono ai confidi vigilati di beneficiare di un ingiustificato vantaggio concorrenziale, vietato ai sensi degli artt. 49, 56 e 106 del TFUE".).

Più precisamente, con riguardo al requisito della sede legale nella regione, l'Autorità ha espresso una valutazione negativa in termini di impatto sulla concorrenza nel mercato di riferimento, limitando tale requisito, di fatto, l'accesso al mercato geografico di riferimento di Confidi nuovi o attivi su altri territori.

Tale valutazione negativa è ritenuta parimenti applicabile all'ipotesi in cui il requisito territoriale riguardi, come nel caso di specie, la sede operativa posto che essa rappresenta il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l'accentramento dei rapporti interni e .con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività del Confidi e dunque la sede commercialmente più attiva.

Permarebbe, infatti, anche in quest'ultima ipotesi l'assenza di giustificazione e l’idoneità a produrre una compartimentazione a livello di mercato dei Confidi limitata agli ambiti regionali. Nelle dette pronunce l'Autorità oltre a porre l'accento sul potenziale pregiudizio alla concorrenza di tali requisiti territoriali ne evidenzia il contrasto con l'ordinamento comunitario e, in particolare, con gli obiettivi di liberalizzazione perseguiti dagli articoli 56 e 49 106 del TFUE disciplinanti rispettivamente la libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, e la rimozione delle posizioni di esclusiva o, comunque, di diritti speciali in capo alle imprese, come i Confidi, incaricate di un servizio di interesse economico generale, ma non necessarie allo svolgimento della loro missione.

E' con riferimento a tale questione che la norma appare, allora, come chiarito nelle citate delibere dell'Autorità antitrust, incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione che, com'è noto, impone il rispetto da parte del legislatore statale e di quello regionale dei vincoli appena richiamati, derivanti dall'ordinamento comunitario nonché degli obblighi internazionali.

Più in generale, poi, codesta Corte Costituzionale con riferimento a discriminazioni tra imprese effettuate sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale, ha ripetutamente ritenuto il contrasto delle medesime con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nonché con la previsione dì cui l'art. 120, comma 1, Cost. secondo cui la Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le regioni né limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.

Da tale ultimo principio, più volte ritenuto applicabile all'esercizio di attività professionali ed economiche, discende, secondo la Corte, il divieto per i legislatori regionali di frapporre barriere di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale, in difetto di una giustificazione ragionevole.

E' evidente che le norme qui in esame realizzano una ingiustificata discriminazione fra imprese sulla base di un elemento territoriale che contrasta con il principio di libera concorrenza di cui all'art. 41 della Costituzione.

L'applicazione del limite territoriale determina un trattamento differenziato ratione loci a danno dei soggetti non localizzati nel territorio regionale, in violazione del limite generale del rispetto della Costituzione nonché degli obblighi internazionali.

Inoltre, viola il principio di parità di trattamento di situazioni identiche e della uniformità di disciplina e di trattamento nei confronti degli operatori economici su tutto il territorio nazionale.

Infine, in punto di competenza, le disposizioni contestate, introducendo criteri preferenziali per le imprese presenti nel territorio regionale, invadono la competenza esclusiva statale in tema di tutela della concorrenza ex art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione. Preferenze territoriali nell'erogazione dello specifico aiuto pubblico costituito dalla controgaranzia del Fondo di garanzia presso il Mediocredito centrale si traducono infatti in forme di compartimentazione dei mercati, cioè in norme di immediato impatto anticoncorrenziale, che solo al legislatore statale, ove ricorrano validi presupposti, può essere consentito di introdurre.

All'impatto anticoncorrenziale immediato della previsione in esame, che tocca il mercato delle garanzie fidi, discriminando ì Confidi non aventi sede operativa in Veneto, fa poi seguito, si osserva in chiusura, un non meno rilevante impatto.

anticoncorrenziale mediato, consistente nell'indebito favore nell'accesso al credito che viene così riservato alle imprese operanti in Veneto.

Il fondo regionale ex lege reg. 19/2004 individua tra i propri beneficiari le sole PMI le cui iniziative sono ubicate nel territorio della regione Veneto. A loro volta, i Confidi veneti prestano normalmente, per statuto, garanzie solo a favore di consorziati stabiliti in tale territorio.

E' evidente come in tal modo l'indebito rafforzamento del sistema delle garanzie localizzato nel territorio veneto crei una doppia distorsione concorrenziale tra le imprese interessate alle garanzie. Da un lato, esso favorisce nell'accesso al credito le imprese le cui iniziative sono ubicate nel territorio veneto rispetto alle loro concorrenti che abbiano ubicato iniziative analoghe in altri territori regionali, anche appartenenti al medesimo bacino economico. Dall'altro, esso determina una potenziale distorsione nelle decisioni delle imprese circa la localizzazione delle proprie iniziative economiche, incoraggiando la localizzazione in Veneto a discapito della localizzazione in altri territori, così deformando mediante l'intervento pubblico le dinamiche allocative di mercato.

Anche sotto questo profilo, appaiono dunque nette sia la violazione del principio sostanziale di concorrenza, sia, comunque, l'invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di concorrenza.

******

L'articolo 111 della legge regionale in esame dispone in materia di impianti energetici e delle condizioni per l'autorizzazione di impianti energetici a biomassa, a biogas e gas di discarica e di processi di depurazione.

Esso prevede: "1. Al fine di contemperare il ricorso all'uso di fonti energetiche rinnovabili con le esigenze di tutela della salute umana, di protezione dell'ambiente e di tutela del paesaggio, di contenimento del consumo di suolo, di preservazione delle risorse naturalistiche, relativamente agli impianti energetici a biomassa, agli impianti energetici a biogas e gas di discarica e di processi di depurazione di potenzialità uguale o superiore a 999 kW elettrici si applicano le disposizioni di cui al presente articolo.

2. Tutti i manufatti che costituiscono gli impianti per la produzione di energia alimentati da biogas e da biomasse quali digestore, vasca di caricamento delle biomasse, vasca di stoccaggio dell'effluente/concimaia, impianti di combustione o gassificazione della biomassa per la cogenerazione di energia elettrica e calore, devono essere collocati ad una distanza pari a:

a)  per gli impianti sopra i 1.000 kW elettrici di potenza:

1)  distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili sparse: 150 metri;

2)  distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili concentrate ( centri abitati): 300 metri;

b)  per gli impianti sopra i 3.000 kW elettrici di potenza:

1)  distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili sparse: 300 metri;

2)  distanza mznzma reciproca rispetto alle residenze civili concentrate ( centri abitati): 500 metri.

3. I manufatti e le installazioni relativi agli impianti energetici di cui al comma 1 possono essere autorizzati qualora conformi alle disposizioni stabilite per gli elementi costituenti la rete ecologica, come individuata e disciplinata nei piani urbanistici approvati o adottati e in regime di salvaguardia ai sensi dell'articolo 29 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 "Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio" e dell'articolo 12, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia". Qualora la realizzazione di tali manufatti ed installazioni sia condizionata all'esecuzione di interventi di mitigazione, compensazione e di riequilibrio ecologico e ambientale, l'esercizio degli impianti è subordinato al completamento degli interventi predetti, ovvero alla presenza di adeguate garanzie finanziarie per la loro realizzazione.

4. In assenza di piani urbanistici con individuazione e disciplina degli elementi della rete ecologica, le disposizioni di cui al comma 3 si applicano con riferimento alla rete ecologica individuata e normata nei piani gerarchicamente sovraordinati.

5. I manufatti e le installazioni relativi agli impianti energetici di cui al comma 1 possono essere autorizzati qualora conformi alle prescrizioni contenute negli elaborati di valutazione ambientale strategica e pareri connessi relativi al piano energetico regionale, al piano regionale di tutela e risanamento dell'atmosfera e, ove presenti, ai piani energetici comunali.

6. La Giunta regionale, al fine di predisporre le linee guida regionali per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, ai sensi del decreto ministeriale 10 settembre 2010 "Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili", avvia attività di studio per definire le ulteriori misure atte a garantire il rispetto delle esigenze pubbliche di tutela, prevenzione e preservazione di cui al comma 1.

7. Sino all’entrata in vigore delle linee guida regionali di cui al comma 6, gli impianti energetici di cui al comma 1, e loro ampliamenti, possono essere autorizzati in zona agricola esclusivamente qualora richiesti dall'imprenditore agricolo a titolo principale.

8. La Giunta regionale è autorizzata ad emanare provvedimenti esplicativi e di indirizzo in merito all'applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo.

9. Le norme di cui al presente articolo non si applicano agli impianti di cui al comma 1 a servizio di opere pubbliche o di pubblica utilità e agli ampliamenti di quelli già esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge".

Le disposizioni di tale norma della legge regionale in esame sono riconducibili, ai sensi dell'art. 117, comma 3 Cost. alla potestà legislativa concorrente in materia di "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" i cui principi fondamentali in materia di regimi autorizzativi sono contenuti nel d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità) e nel decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 (attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili) (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 275/2012).

I citati regimi abilitativi e i relativi procedimenti sono articolati nell'ambito delle linee guida nazionali di cui al decreto interministeriale 10 settembre 2010 (G.U. 18/8/2010 n. 219) in attuazione del comma 10 dell'articolo 12 del citato d.lgs. 387/2003 e richiamate nel d. lgs. 28/2011.

L'art. 12, comma 10, del d.lgs. 387 /2003, stabilisce che tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti.

Questo complesso normativo costituisce la disciplina interposta che funge da parametro della legittimità costituzionale della disposizione in commento.

Ciò premesso, l'art. 111, commi 2, 3,4, 5, 7 e 8 appare illegittimo per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art.117 comma 3 Cost. relativo alla potestà legislativa concorrente in materia di ''produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" e connesse norme interposte.

A) L'art.111 c. 2 stabilisce le distanze minime degli impianti a biomassa, a biogas e gas di discarica e di processi di depurazione (di potenza superiore ai 1.000 e ai 3.000 kW) rispetto alle residenze civili sparse e concentrate.

Tali disposizioni nella parte in cui impongono l'obbligo del rispetto di date distanze per la localizzazione degli impianti in questione appaiono incostituzionali per contrasto con l'art. 12, comma 10, del d.lgs. 387/2003 e con il paragrafo 1.2 delle citate linee guida.

La normativa statale, come ha avuto modo di chiarire la Corte costituzionale con la sentenza n. 13/2014, consente alle Regioni solo di individuare «le aree e i siti non idonei» alla installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, ma non di porre limiti generali, valevoli sull'intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime, perché ciò contrasterebbe con il principio fondamentale di derivazione comunitaria di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili.

La citata normativa statale implica sempre una valutazione caso per caso delle condizioni di eventuale inidoneità, e non consente di presumere iuris et de iure l'inidoneità degli spazi compresi nelle distanze minime fissate dal comma 2 qui impugnato. Si rinvia in proposito, richiamandone i contenuti anche nel presente paragrafo, all'illustrazione dell'art. 17 delle linee guida che sarà fatta nel successivo paragrafo B).

E' vero che il comma 1 del medesimo art. 111 motiva l'adozione di dette misure "Al fine di contemperare il ricorso all'uso di fonti energetiche rinnovabili con le esigenze di tutela della salute umana, ... " e che il territorio della regione Veneto e' compreso nell'area del Bacino padano dove più rilevanti sono i problemi di inquinamento dovuti al frequente superamento dei limiti delle concentrazioni di polveri sottili, rispetto ai quali gli impianti in questione possono indubitabilmente contribuire.

Tuttavia, proprio perché l’interesse pubblico alla massima diffusione degli impianti a fonte rinnovabile può recedere di fronte alle prospettate esigenze di tutela della salute, ciò conferma la necessità di un motivato approccio “caso per caso”, non potendosi certo ritenere né che il formale rispetto di talune distanze assicuri di per sé dal rischio per la salute pubblica che la concentrazione di polveri sottili o altri fattori critici possono comportare; né che il mancato rispetto di tali distanze rappresenti di per sé un rischio per la salute.

B) L’art. 111, commi 3, 4 e 5, subordina l’autorizzazione dei citati impianti alla loro conformità “alle disposizioni stabilite per gli elementi costituenti la rete ecologica, come individuata e disciplinata nei piani urbanistici approvati o adottati e in regime di salvaguardia” (comma 3, primo periodo) o, in assenza, “nei piani gerarchicamente sovraordinati” (comma 4) ovvero ancora “alle prescrizioni contenute negli elaborati di valutazione ambientale strategica e pareri connessi relativi al piano energetico regionale, al piano regionale di tutela e risanamento dell’atmosfera e, ove presenti, ai piani energici comunali” (comma 5).

Anche tali disposizioni, ad eccezione della parte del comma 5 che fa riferimento alle prescrizioni contenute negli elaborati di valutazione ambientale strategica e pareri connessi relativi “al piano regionale di tutela e risanamento dell’atmosfera”, appaiono incostituzionali alla luce dell’art. 12, comma 10, del d. lgs. 387/2003 il quale stabilisce che in attuazione delle linee guida (poi emanate con il citato DM 10 settembre 2010) le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti.

Le disposizioni regionali in esame, ponendo alla localizzazione degli impianti energetici da fonte rinnovabile generici vincoli di conformità pianificatoria, eludono la normativa di cui alle linee guida le quali stabiliscono che le Regioni e le Province autonome possono porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatorio o pianificatorio  per l’installazione di specifiche tipologie e impianti alimentari a fonti rinnovabili ed esclusivamente nell’ambito e con le modalità di cui al paragrafo 17 (punto 1.2).

Il paragrafo 17.1 stabilisce che l’individuazione della non idoneità dell’area è operata dalle Regioni, nel rispetto dei criteri di cui all’allegato 3 delle medesime linee di guida, attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l’insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione.

L’allegato 3 stabilisce poi che l’area non idonea non può riguardare  “porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell’identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela”. Gli esiti di tale istruttoria devono contenere in relazione a ciascuna area individuata come non idonea la descrizione delle incompatibilità riscontrate con gli obiettivi di protezione individuati nelle disposizioni esaminate.

In base al paragrafo 17.2 le Regioni inoltre conciliano le politiche di tutela dell’ambiente e del paesaggio con quelle di sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili attraverso atti di programmazione congruenti con la quota minima di produzione di energia di fonti rinnovabili loro assegnata (cd. Burden sharing di cui al DM  15 marzo 2012) assicurando uno sviluppo equilibrato delle diverse fonti. Le aree non idonee sono, dunque, individuate dalle Regioni nell’ambito dell’atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi di  burden sharing.

La normativa regionale contenuta nei commi in esame si pone dunque in contrasto con il descritto processo di individuazione delle aree non idonee che pone il principio di contemperamento delle esigenze di tutela ambientale, paesaggistica, ecc., con le politiche di raggiungimento degli obiettivi di consumo di energia da fonte rinnovabile sul consumo lordo. L’assenza di qualsivoglia specifica valutazione da parte della regione è peraltro confermata dal comma 6 dell’art. 111 il quale prevede l’avvio di attività di studio per definire le (ulteriori) misure atte a garantire il rispetto delle esigenze pubbliche di tutela, prevenzione e preservazione.

E’ evidente come il generico rinvio, per di più senza alcuna indicazione di criteri, al parametro “aperto”  della “conformità” degli impianti in questione ai diversi livelli di programmazione territoriale, essenzialmente urbanistica, menzionati nei commi qui impugnati, si traduca nella vanificazione dello specifico e vincolante procedimento di individuazione delle aree non idonee, appena descritto.

Proprio perché in materia sussiste una fondamentale esigenza di contemperare l’interesse alla massimizzazione della produzione di energia da fonte rinnovabile con il complesso degli interessi alla tutela del paesaggio, dell’ambiente, della salute, il procedimento di individuazione delle aree non idonee, costituendo la sede di tale contemperamento, si pone come un passaggio imprescindibile; e le disposizioni di legge e delle linee guida che lo disciplinano costituiscono principi fondamentali della materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” di cui all’art. 117 c. 3 Cost.

Con riguardo al valore di norma interposta delle linee guida va ricordato che codesta Corte Costituzionale ha affermato che, in ambito tecnico  (qual’ è quello di specie) le linee guida costituiscono “il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa” e che in detto campo tecnico  esse “vengono ad essere un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi ( gli atti di formazione secondaria, ndr) affida il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica” (sentenza Corte Cost. n. 11 del 2014). In tal senso, i criteri tecnici per l’individuazione delle aree e siti non idonei alla installazione di impianti a fonte rinnovabile, specificatamente delegati alle linee guida, rappresentano il completamento tecnico della normativa primaria che ad esse rinvia (art. 12 , comma 10, d.lgs 387 cit. ).

In più, la stessa normativa regionale di cui al comma 5 contrasta con il paragrafo 14.5 delle citate linee guida in base al quale il superamento di eventuali limitazioni di tipo programmatico contenute nel Piano Energetico regionale o delle quote minime di incremento dell’energia elettrica da fonti rinnovabili non preclude di per sé l’avvio e la conclusione favorevole del procedimento di autorizzazione.

Ciò alla stregua del principio di procedimentalizzazione in base al quale è nel procedimento amministrativo di autorizzazione che devono emergere le ragioni ostative alla realizzazione ed esercizio degli impianti FER.

C) L’art. 111, comma 7, della legge regionale in esame, stabilisce che “Sino all’entrata in vigore delle linee guida regionali di cui al comma 6, gli impianti energetici di cui al comma 1, e loro ampliamenti, possono essere autorizzati in zona agricola esclusivamente qualora richiesti dall’imprenditore agricolo a titolo principale”. Tale disposizione eccede la competenza della Regione in materia di “produzione. Trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” di cui all’art. 117 , comma 3, della Costituzione e ciò per contrasto con la normativa statale di principio in materia di fonti rinnovabili.

La disposizione regionale in parola contrasta infatti con i principi fondamentali di cui all’art. 1 , coma 1, del d.lgs, 79/1999 secondo cui, in specifica attuazione della Direttiva 96/92/CE (anch’essa, quindi, violata dal legislatore regionale), “Le attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica sono libere nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico contenuti nelle diposizioni del presente decreto”.

Tale principio implica che a tale attività si accede in condizioni di uguaglianza, senza discriminazioni nelle modalità, condizioni e termini per il suo esercizio. La disposizione regionale, dunque, risulta affetta da incostituzionalità nella parte in cui consente, contrariamente a quanto previsto dalla normativa statale, soltanto a specifici soggetti (gli imprenditori agricoli a titolo principale) di poter essere eventualmente autorizzati a costruire o ampliare gli impianti in parola in zone agricole.

Tale disposizione contrasta quindi anche con l’art. 3 della Costituzione ponendo una ingiustificata discriminazione tra soggetti che possono assumere l’iniziativa economica di produzione di energia da fonti rinnovabili.

D) Per tutte le considerazioni di cui ai paragrafi che precedono, anche il comma 8 dell’art. 111 appare incostituzionale, in via derivata, laddove prevede che “La Giunta regionale è autorizzata ad emanare provvedimenti esplicativi e di indirizzo in merito all’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo”.

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L’art. 6, nei commi da 1 a 5  prevede: “1. E’ istituito il Servizio regionale di vigilanza.

2. La Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lettera b), della legge regionale 31 dicembre 2012, n.54 “legge regionale per l’ordinamento e le attribuzioni delle strutture della Giunta regionale in attuazione della legge regionale statutaria 17 aprile 2012, n. 1 “Statuto del Veneto” individua la struttura di cui al comma 1 e ne determina le relative competenze.

3. In particolare spettano al Servizio regionale di vigilanza le attività di controllo e di vigilanza:

a)  correlate alle funzioni non fondamentali conferite dalla Regione alle province e alla Città metropolitana di Venezia, di cui all’articolo 2, comma 1, della legge regionale 29 ottobre 2015, n.19;

b)  relative alla tutela e salvaguardia della fauna selvatica e all’attività di prelievo venatorio di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il rinnovo venatorio” e alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” nonché della fauna ittica  e della pesca nelle acque interne di cui alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto” ricadenti nelle funzioni non fondamentali conferite dalla Regione alle province e alla Città metropolitana di Venezia, di cui all’articolo 2, comma 1 della legge regionale 29 ottobre 2015, n. 19;

c) relative alle competenze di cui all’articolo 57 della legge regionale 31 ottobre 1980, n. 88 “Legge generale per gli interventi nel settore primario”.

4. Il personale addetto alle attività di polizia provinciale correlate alle funzioni di cui al comma 3, lettera a) e b) già inserito, ai sensi dell’articolo 9, comma 7, della legge regionale 29 ottobre 2015, n. 19, nella dotazione organica delle province e della Città metropolitana di Venezia viene trasferito nella dotazione organica della Regione e assegnato al Servizio regionale di vigilanza.

5. Al personale di cui al comma 4 sono garantite tutte le indennità e il trattamento economico già maturati ed in godimento nell’Amministrazione di provenienza e sono conservate le qualifiche di cui sono titolari”.

Il comma 5 prevede , come si vede, che al personale addetto alle attività di polizia provinciale ricollocato presso la Regione sono garantite tutte le indennità e il trattamento economico già maturati e in godimento e sono conservate le qualifiche di cui era già titolare.

La disposizione appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell’art. 117, 2 comma lett. h) Cost.

Il mantenimento delle qualifiche previste per il personale della polizia provinciale trasferito al servizio regionale di vigilanza, così come disciplinato dal comma in esame comporta anche il mantenimento la qualifica di agente di polizia giudiziaria. In tal modo, la norma invade la competenza  statale esclusiva in materia di “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale” di cui all’art. 117 c. 2 lett. h) Cost.

Lo Stato ha infatti esercitato tale competenza esclusiva nel senso di escludere che il personale delle regioni possa rivestire la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria.

Ciò risulta dalla legge 7 marzo 1986, n.65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), e in particolare l’articolo 5, giusta il quale “1. Il personale che svolge servizio di polizia municipale, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche:

  1. funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tale fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia giudiziaria, riferita ai responsabili del servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell’articolo 221, terzo comma, del codice di procedura penale” tenuto conto che il vigente ordinamento non contempla che personale regionale possa svolgere le funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, così come previsto per il personale che svolge servizio di polizia municipale”; e dall’art. 57 c. 2 lett. b) c.p.p., giusta il quale “sono agenti di polizia giudiziaria: …b) … le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio”.

Nessuna di  queste disposizioni menziona personale alle dipendenze delle regioni.

La legge regionale, nel riorganizzare i servizi di vigilanza regionali anche mediante il trasferimento di parti del personale della polizia provinciale o municipale, non può quindi operare in modo da attribuire a tale personale, divenuto a tutti gli effetti personale regionale, la suddetta qualifica di agente di polizia giudiziaria.

D’altra parte, non vi è dubbio che nella materia di legislazione esclusiva in questione rientri anche l’attribuzione delle qualifiche di ufficiale e agente di polizia giudiziaria.

Il possesso di tali qualifiche è infatti essenziale per lo svolgimento delle funzioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicchè l’attribuzione di tali qualifiche costituisce parte integrante della relativa disciplina di fonte statale.

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L’art. 20 dispone: “1. All’articolo 12 della legge regionale 28 novembre 2014, n. 37 dopo il comma 3 è aggiunto il seguente:

“3-bis. Ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza i dirigenti e i dipendenti dell’Agenzia, mantengono l’iscrizione all’INPS Gestione Dipendenti Pubblici – ex Gestione INPDAP – ex Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali”.”

La legge regionale 37/2014 ha istituito l’Agenzia veneta per l’innovazione nel settore primario.

Ai sensi dell’art. 2 di questa legge “1. L’Agenzia svolge attività di supporto alla Giunta regionale nell’ambito delle politiche che riguardano i settori agricolo, agroalimentare, forestale e della pesca; inoltre svolge le seguenti funzioni;

  1. ricerca applicata e sperimentazione finalizzate al collaudo e alle diffusione in ambito regionale delle innovazioni tecnologiche e organizzative volte a migliorare la competitività delle imprese e delle filiere produttive, la sostenibilità ambientale, nei comparti agricolo, agroalimentare, forestale e della pesca;
  2. diffusione, supporto e  trasferimento al sistema produttivo delle innovazioni tecnologiche, organizzative, di processo e di prodotto, ivi compresi i processi di valorizzazione e certificazione della qualità, nonché di diversificazione delle attività, volti a migliorare la competitività delle imprese e la sostenibilità ambientale nei comparti, agricolo, agroalimentare, forestale e della pesca, anche tramite l’avvalimento di strutture produttive private rappresentative delle diversità realtà produttive del territorio regionale;
  3. salvaguardia e tutela delle biodiversità vegetali e animali di interesse agrario, naturalistico e ittico nonché gestione del demanio forestale regionale sulla base delle linee di indirizzo approvate dalla Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare,

c-bis)        censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica, studiarne lo stato, l’evoluzione e i rapporti con le altre componenti ambientali, anche in funzione della predisposizione del piano faunistico-venatorio regionale, ivi compresa la espressione dei pareri tecnico scientifici richiesti.

  1. raccordo fra strutture di ricerca e attività didattiche e sperimentali degli istituti di indirizzo agrario, presenti sul territorio regionale, al fine di trasferire e testare la domanda di innovazione proveniente dagli operatori”.

L’art. 12 , nei primi tre commi, prevede che “1. Con la deliberazione con cui la Giunta regionale impartisce le direttive cui l’Agenzia deve attenersi nello svolgimento delle proprie attività e gli indirizzi in materia di organizzazione, è definito il quadro generale dell’assetto strutturale e organizzativo dell’Agenzia.

2. Il direttore, entro sessanta giorni dalla approvazione del provvedimento di cui al comma 1, provvede ad adottare il regolamento di organizzazione e a definire l’assetto strutturale e propone la dotazione organica, nei limiti definiti dalla Giunta regionale.

3. Ai dirigenti e dipendenti dell’Agenzia si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro delle aziende municipalizzate di igiene ambientale, nel rispetto dei vincoli e delle limitazioni contenute nell’articolo 13”.

L’art. 20 qui impugnato, come visto, aggiunge il coma 3-bis, all’articolo 12 della legge regionale n. 37 del 2014 disponendo che ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza i dirigenti e dipendenti dell’Agenzia, mantengano l’iscrizione all’INPS Gestione Dipendenti Pubblici – ex Gestione INPDAP  - ex Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali.

La disposizione appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117 comma 2 lett. o) Cost.

La materia della previdenza sociale è riservata alla competenza esclusiva dello Stato ed è quindi regolamentata soltanto dalla normativa nazionale.

La disposizione in esame incide direttamente sulla disciplina della previdenza sociale poiché prevede che il personale in questione, benché inquadrato nella contrattazione collettiva delle aziende municipalizzate di igiene ambientale, cioè come personale soggetto all'iscrizione alla gestione ordinaria Inps, mantenga invece l'iscrizione alla speciale gestione Inps per i dipendenti pubblici, già iscritti all'Inpdap e alla Cassa

pensioni dipendenti enti locali.

In tal modo la norma impugnata dispone in modo diretto sulle modalità di iscrizione previdenziale e sugli oneri che il trattamento previdenziale di tali dipendenti comporta sul bilancio dell'Inps.

Ciò risulta dalla legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale), e in particolare l'articolo 5, giusta il quale "l. Il personale che svolge servizio di polizia municipale, nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche:

a)  funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia giudiziaria, riferita ai responsabili del servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell'articolo 221, terzo comma, del codice di procedura penale" tenuto conto che il vigente ordinamento non contempla che personale regionale possa svolgere le funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, così come previsto per il personale che svolge servizio di polizia municipale"; e dall'art. 57 c. 2 lett. b) c.p.p., giusta il quale "sono agenti di polizia giudiziaria: ... b) ... le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio".

Nessuna di queste disposizioni menziona personale alle dipendenze delle regioni.

La legge regionale, nel riorganizzare i servizi di vigilanza regionali anche mediante il trasferimento di parti del personale della polizia provinciale o municipale, non può quindi operare in modo da attribuire a tale personale, divenuto a tutti gli effetti personale regionale, la suddetta qualifica di agente di polizia giudiziaria.

D'altra parte, non vi è dubbio che nella materia di legislazione esclusiva in questione rientri anche l'attribuzione delle qualifiche di ufficiale e agente di polizia giudiziaria.

Il possesso di tali qualifiche è infatti essenziale per lo svolgimento delle funzioni di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, sicché l'attribuzione di tali qualifiche costituisce parte integrante della relativa disciplina di fonte statale.

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L'Art. 20 dispone: "1. All'articolo 12 della legge regionale 28 novembre 2014, n. 37 dopo il comma 3 è aggiunto il seguente:

"3-bis. Ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza i dirigenti e dipendenti dell'Agenzia, mantengono l'iscrizione all’ INPS Gestione Dipendenti Pubblici – ex Gestione INPDAP - ex Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali"."

La legge regionale 37/2014 ha istituito l'Agenzia veneta per l'innovazione nel settore primario.

Ai sensi dell'art. 2 di questa legge, "l. L'Agenzia svolge attività di supporto alla Giunta regionale nell'ambito delle politiche che riguardano i settori agricolo, agroalimentare, forestale e della pesca; inoltre svolge le seguenti funzioni:

a)  ricerca applicata e sperimentazione finalizzate al collaudo e alla diffusione in ambito regionale delle innovazioni tecnologiche e organizzative volte a migliorare la competitività delle imprese e delle filiere produttive, la sostenibilità ambientale, nei comparti agricolo, agroalimentare, forestale e delle pesca;

b)  diffusione, supporto e trasferimento al sistema produttivo delle innovazioni tecnologiche, organizzative, di processo e di prodotto, ivi compresi i processi di valorizzazione e certificazione della qualità, nonché di diversificazione delle attività, volti a migliorare la competitività delle imprese e la sostenibilità ambientale nei comparti, agricolo, agroalimentare, forestale e della pesca, anche tramite l’avvalimento di strutture produttive private rappresentative delle diverse realtà produttive del territorio regionale;

c)  salvaguardia e tutela della biodiversità vegetali e animali di interesse agrario, naturalistico e ittico nonché gestione del demanio forestale regionale sulla base delle linee di indirizzo approvate dalla Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare;

c-bis)  censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica , studiarne lo stato, l’evoluzione  e i rapporti con le altre componenti ambientali anche in funzione della predisposizione del piano faunistico-venatorio regionale, ivi compresa la espressione dei pareri tecnico scientifici richiesti;

d)  raccordo fra strutture di ricerca ed attività didattiche e sperimentali degli istituti di indirizzo agrario, presenti sul territorio regionale, al fine di trasferire e testare la domanda di innovazione proveniente dagli operatori”;

L’art. 12, nei primi tre comuni, prevede che “1. Con la deliberazione con cui la Giunta regionale impartisce le direttive cui l’Agenzia deve attenersi nello svolgimento delle proprie attività e gli indirizzi in materia di organizzazione, è definito il quadro generale dell’assetto strutturale e organizzativo dell’Agenzia.

2. Il direttore, entro sessanta giorni dalla approvazione del provvedimento di cui al comma 1, provvede ad adottare il regolamento di organizzazione e a definire l’assetto strutturale e propone la dotazione organica, nei limiti definiti dalla Giunta regionale.

3. Ai dirigenti e dipendenti dell’Agenzia si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro nelle aziende municipalizzate di igiene ambientale, nel rispetto dei vincoli e delle limitazioni contenute nell’articolo 13”.

L’art. 20 qui impugnato, come visto, aggiunge il comma 3-bis, all’articolo 12 della legge regionale n. 37 del 2014 disponendo che ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza i dirigenti e dipendenti dell’Agenzia, mantengano l’iscrizione all’INPS Gestione Dipendenti Pubblici – ex Gestione INPDAP  - ex Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali.

La disposizione appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell’art. 117 comma 2 lett. o) Cost.

La materia della previdenza sociale è riservata alla competenza esclusiva dello Stato ed è quindi regolamentata soltanto dalla normativa nazionale.

La disposizione in esame incide direttamente sulla disciplina della previdenza sociale poiché prevede che il personale in questione, benchè inquadrato nella contrattazione collettiva delle aziende municipalizzate di igiene ambientale, cioè come personale soggetto all’iscrizione alla gestione ordinaria Inps, mantenga invece l’iscrizione alla speciale gestione Inps per i dipendenti pubblici , già iscritti all’Inpdap e alla Cassa pensioni dipendenti enti locali.

In tal modo la norma impugnata dispone in modo diretto sulle modalità di iscrizione previdenziale e sugli oneri che il trattamento previdenziale di tali dipendenti comporta sul bilancio dell’Inps.

Evidente è, di conseguenza, l'invasione della competenza statale esclusiva ex art. 117 c. 2 lett. o) Cost.

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Art. 29, commi 3 e 4

Queste disposizioni prevedono:

"3.  Al fine del conseguimento dell'obiettivo di contenimento della spesa di cui all'articolo 2, comma 71, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)" ed all'articolo 17, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria",

con effetto dal 1 ° gennaio 2017 in presenza di riorganizzazioni dell'area tecnico-amministrativa degli enti del servizio sanitario regionale derivanti dall'applicazione della legge regionale 25 ottobre 2016. n. 19 "Istituzione dell'ente di governance della sanità regionale veneta denominato "Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto - Azienda Zero". Disposizioni per la individuazione dei nuovi ambiti territoriali delle Aziende ULSS” i fondi per la contrattazione integrativa del personale dirigenziale dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo sono permanentemente ridotti di un importo pari ai risparmi derivanti dalla diminuzione delle strutture complesse operata in attuazione di detti processi di riorganizzazione,

anche laddove non abbiano comportato riduzione del personale in servizio.

4.  I risparmi conseguiti dagli enti del servizio sanitario regionale ai sensi del comma 3 possono essere destinati in quota parte dalla Regione alla costituzione e integrazione dei fondi per la contrattazione integrativa del personale dell'azienda costituita ai sensi dell'articolo 1 della legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19 in relazione alla dotazione organica dell'azienda predetta e delle fanzioni alla stessa trasferite dagli enti del servizio sanitario regionale."

In sostanza, il comma 3 dell'art. 29 prevede che in presenza di riorganizzazioni dell'area tecnico-amministrativa degli enti del servizio sanitario regionale derivanti dall'istituzione dell' "Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto - Azienda Zero" i fondi per la contrattazione integrativa del personale dirigenziale dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo sono permanentemente ridotti di un

importo pari ai risparmi derivanti dalla diminuzione delle strutture complesse operata in attuazione di detti processi di riorganizzazione, anche laddove non abbiano comportato riduzione del personale in servizio.

Il successivo comma 4 dispone che i risparmi conseguiti dagli enti del SSR, ai sensi del precedente comma, possono essere destinati in quota parte dalla Regione alla costituzione e integrazione dei fondi per la contrattazione integrativa del personale della predetta Azienda in relazione alla dotazione organica e delle funzioni alla stessa trasferite dagli enti del SSR.

La disposizione in esame appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, 3 comma e 2 comma lett. l) Cost.

Le suddette previsioni non recano espressamente il riferimento al limite percentuale previsto, per detta tipologia di risparmi, dall'articolo 16, commi 4 e 5, del d.l. n. 98/2011, secondo cui le economie derivanti da spese di riordino e ristrutturazione amministrativa possono essere utilizzate annualmente nell'importo massimo del 50% per la contrattazione integrativa.

Quest'ultima previsione costituisce un principio generale di coordinamento della finanza pubblica, in quanto mira a contemperare le esigenze di contenimento della spesa pubblica, che implicano il definitivo consolidamento dei risparmi di spesa derivanti dalle ristrutturazioni, con le esigenze, pure meritevoli di considerazione, dell'incentivazione del personale tramite la contrattazione integrativa.

Nessuna pubblica amministrazione può quindi derogare al suddetto limite quantitativo di destinazione dei risparmi al finanziamento della contrattazione integrativa.

Pertanto, il suddetto comma 4 si pone in contrasto sia con 1' art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di coordinamento della finanza pubblica; sia, comunquem con l'art. 117, secondo comma, lett. 1), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l'ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile (contratti collettivi).

E' infatti nella contrattazione collettiva integrativa che debbono trovare definitiva quantificazione le risorse destinate al finanziamento dei relativi contratti, con la previsione delle fonti da cui trarle, a cominciare dai risparmi di spesa di cui all'art. 16 commi 4 e 5 d.l. 98/2011.

*****

Art. 30, commi 1 e 2.

Questa disposizione prevede:

"1.  Dopo il comma 3 dell'articolo 4 della legge regionale 14 settembre 1994, n. 56, sono aggiunti i seguenti:

"3-bis.  Ai professori e ricercatori universitari inseriti in assistenza è riconosciuto il trattamento economico previsto dall'articolo 6 del decreto legislativo n. 517/99, dovendo pertanto essere garantita, a carico del servizio sanitario regionale, l'equiparazione della retribuzione complessiva tra personale universitario e

personale del servizio sanitario nazionale, mediante l'attribuzione di un 'eventuale indennità integrativa determinata nella misura necessaria ad assicurare al personale universitario un trattamento economico complessivo non inferiore a quello attribuito al personale del selllizio sanitario nazionale di pari anzianità ed incarico.

3-ter.  La. Regione, direttamente o per il tramite delle Aziende Ospedaliere di Padova e Verona, può assumere, ai sensi dell'articolo 18, comma 3, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, oneri per la chiamata di professori ai sensi dell'articolo 18, comma 1, della predetta legge n. 240 del 2010, limitatamente ai dipendenti delle Aziende ospedaliere di Padova e Verona muniti di abilitazione all'insegnamento

universitario.".

2.  Agli oneri derivanti dall'applicazione del presente articolo si fa fronte con le risorse del Fondo Sanitario Regionale allocate alla Missione 13 "Tutela della salute" Programma 01 "Servizio sanitario regionale - finanziamento ordinario corrente per la garanzia dei LEA" Titolo 1 "Spese correnti" del bilancio di previsione 2017-2019."

La disposizione, come si vede, è finalizzata a riconoscere ai professori e ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale all'interno delle aziende ospedaliero-universitarie, un trattamento economico che garantisca l'equiparazione della retribuzione complessiva tra personale universitario e personale del Servizio sanitario nazionale, mediante l'attribuzione di un'eventuale indennità integrativa, a carico del

SSR, determinata nella misura necessaria ad assicurare al personale universitario un trattamento economico complessivo non inferiore a quello attribuito al personale del servizio sanitario nazionale di pari anzianità ed incarico.

La norma appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione e dell'art. 81Cost.

Diversamente da quanto stabilito nel comma in esame, l'art. 6 del d. lgs. 517/1997, superando le disposizioni dell'art 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382/1980 volte a garantire l'equiparazione economica tra personale universitario e personale del SSN, ha disposto che ai professori e ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale, oltre al trattamento economico a carico delle rispettive

università, debbano essere corrisposti da parte del SSN:

1.  un trattamento aggiuntivo graduato in relazione alle responsabilità connesse ai diversi tipi di incarico;

2.  un trattamento aggiuntivo graduato in relazione ai risultati ottenuti nell'attività assistenziale e gestionale, valutati secondo parametri di efficacia, appropriatezza ed efficienza, nonché all'efficacia nella realizzazione della integrazione tra attività assistenziale, didattica e di ricerca;

3.  ove spettanti, i compensi legati alle particolari condizioni di lavoro.

Detti emolumenti devono essere erogati nei limiti delle disponibilità del fondo di riferimento e, comunque, nei limiti delle risorse da attribuire ai sensi dell'articolo 102, comma 2, del DPR 382/1980.

Pertanto la disposizione in esame, disponendo in maniera difforme a quanto previsto dalla legislazione statale vigente relativamente ai trattamenti economici riguardanti i rapporti di lavoro del personale dipendente, contrasta con l'art. 117, secondo comma, lett. 1), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l'ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile

( contratti collettivi).

Essa, infatti, modifica unilateralmente la parte economica del rapporto di lavoro dei medici interessati, ripristinando il regime di equiparazione rigida tra livelli retributivi del personale sanitario e del personale universitario adibito al servizio sanitario; laddove la normativa statale di riferimento, a cui l'autonomia collettiva deve uniformarsi, prevede un trattamento aggiuntivo parametrato non ai livelli retributivi del personale sanitario, bensì alle responsabilità, ai risultati, alle particolari condizioni di lavoro. Ciò, allo scopo di tenere conto anche dal punto di vista retributivo della specificità del ruolo, anche in ambito sanitario, svolto dal personale universitario medico, evitando ogni appiattimento retributivo rispetto a categorie professionali non omogenee.

Inoltre, l'art. 30 comma 1 consentendo l'erogazione di compensi che potrebbero risultare superiori a quelli previsti dalla legislazione vigente, è suscettibile di determinare oneri per i quali la copertura indicata al comma 2 potrebbe non risultare idonea, con conseguente contrasto con l'art. 81 della Costituzione. Le spese in questione non sono infatti minimamente quantificate, e la stessa effettività della copertura indicata dal comma 2 appare incerta, poiché porta l'onere in questione a gravare sul finanziamento ordinario dei livelli essenziali di assistenza, in aggiunta al coacervo delle gravose spese correnti già gravanti su tale essenziale voce contabile.

*****

L'Art. 31, comma 1 reca "Modifiche all'articolo 40 della legge regionale 14 settembre 1994, n. 55 "Norme sull'assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo delle unità locali socio sanitarie e delle aziende ospedaliere in attuazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 "Riordino della disciplina in materia sanitaria", così come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517".

L'art.31 comma 1, nel modificare l'art. 40 cit., riguardante il Collegio dei revisori delle aziende sanitarie locali, prevede nel nuovo comma 5 dell'art. 40 che "i componenti del Collegio hanno diritto al rimborso delle sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell'esercizio

delle loro funzioni. Non sono previsti rimborsi per spese di vitto, alloggio e di viaggio per il trasferimento tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell'Azienda Sanitaria.".

La norma appare illegittima per il seguente

MOTIVO

Violazione dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione.

La ratio della norma è volta alla riduzione dei costi degli apparati amministrativi e al contenimento delle spese per missioni; tuttavia va osservato che il rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze, in seno ai collegi sindacali delle aziende sanitarie, svolge il compito di controllo e vigilanza dei conti pubblici ed è, generalmente, un Dirigente (soggetto al regime retributivo della onnicomprensività) che soggiace alla disciplina primaria sul trattamento di missione dei pubblici dipendenti, regolata dall'art. 26 della legge 18 dicembre 1973, n. 836, e dalla legge 26 luglio 1978, n. 417 e successive modifiche ed integrazioni.

Detti compiti di vigilanza, attribuiti al Ministero Economia e Finanze, anche mediante l'operato dei propri rappresentanti in seno ai Collegi sindacali, sono regolati dalla legge n. 196/2009. In particolare, l'articolo 16 dispone che: "1. Al fine di dare attuazione alle prioritarie esigenze di controllo e di monitoraggio degli andamenti della finanza pubblica di cui all'articolo 14, funzionali alla tutela dell'unità economica della Repubblica, ove non già prevista dalla normativa vigente, è assicurata la presenza di un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze nei collegi di revisione o sindacali delle amministrazioni pubbliche, con esclusione degli enti e organismi pubblici territoriali e, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 3-ter, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, degli enti ed organismi da questi ultimi vigilati, fermo restando il numero dei revisori e dei componenti del collegio. 2. I collegi di cui al comma 1 devono riferire, nei verbali relativi alle verifiche effettuate, circa l'osservanza degli adempimenti previsti dalla presente legge e da direttive emanate dalle amministrazioni vigilanti".

Ciò premesso, l'individuazione delle spese rimborsabili nelle "sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell'esercizio delle loro funzioni" non permette ai componenti del collegio dei revisori l'assolvimento della primaria funzione di controllo della spesa pubblica.

Si evidenzia, altresì, che, ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123, in capo al Ministero dell'Economia e Finanze sono attribuiti compiti di controllo di regolarità amministrativa e contabile, anche mediante l'attività dei Collegi di revisione e sindacali, al fine di assicurare la legittimità e proficuità della spesa. Ancora, ai sensi dell'articolo 20 dello stesso decreto legislativo n. 123/2011, i

Collegi di cui trattasi provvedono agli altri compiti ad essi demandati dalla normativa vigente, compreso il monitoraggio della spesa pubblica.

Inoltre, non può non evidenziarsi che la previsione impugnata compromette l'autonomia delle attività di vigilanza del collegio con particolare riguardo ai componenti fuori sede e stride anche con l'obbligo di partecipazione a tutte le attività di verifica pianificate dallo stesso organo di controllo, potendo far venire meno il principio di collegialità del collegio.

Pertanto, il contingentamento delle spese, così come regolato nella legge regionale risulta non solo in contrasto con le funzioni di controllo in capo al Ministero Economia e Finanze - tenendo altresì presente che, laddove il rappresentante sia un dirigente dello stesso, si applicherebbe l'onnicomprensività del trattamento

retributivo, per cui non sarebbe destinatario del compenso previsto - ma è anche limitativo dell'attività connessa ai doveri e alle conseguenti responsabilità in capo ai Collegi sindacali, in tutti quei casi in cui le Amministrazioni, titolari del potere di designazione, optino, in base a valutazioni discrezionali, per un componente sindaco non residente nel luogo in cui ha sede l'ente.

Per queste ragioni il comma 1 del predetto articolo si pone in contrasto con l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, segnatamente nella parte relativa alla materia del coordinamento della finanza pubblica, ravvisandosi, nella sostanza, elementi di disarmonia con la normativa statale in materia di vigilanza e controllo sulla spesa pubblica.

La compresenza di componenti statali e regionali nei collegi sindacali in questione costituisce un essenziale meccanismo di coordinamento finanziario nel campo della spesa sanitaria, e ne rappresenta quindi un principio fondamentale. Misure che irrazionalmente compromettano il funzionamento di tali organi si pongono quindi in contrasto con tale principio.

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Tutto ciò premesso, il Presidente del Consiglio ricorre a codesta Corte costituzionale affinché voglia dichiarare la illegittimità costituzionale dei seguenti articoli: art. 33, art. 34, commi 3 e 4, art. 631 comma 7, art. 68 comma 1, art. 79 comma  l, art. 95 commi 2,4,5 art 83, art. 111 commi 2,3,4,5,7,8, art. 6. comma 5, art. 20, art. 29 commi 3 e 4, art. 30 comma 1, art. 31,commal della legge della Regione Veneto n. 30 del 30.12.2016.

Si produce per estratto copia conforme della delibera del Consiglio dei Ministri del 23 febbraio 2017 completa di relazione.

 

Roma, 28.2.2017

 

Chiarina Aiello Avvocato dello Stato

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