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Bur n. 94 del 30 settembre 2016


Ricorso

Ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri alla Corte Costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale degli articoli 55; 65; 66, commi 1 e 2; 68, comma 1; 69, comma 2 e 71 della legge della Regione Veneto del 27 giugno 2016, n. 18, pubblicata nel BUR n. 63 del 1° luglio 2016. CT 30277/16 Avv. Guida.

AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

Ecc.ma Corte Costituzionale

Ricorso

(art. 127, comma 1, Cost.)

per

il Presidente del Consiglio dei Ministri in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587 – n. fax 06/96514000 ed indirizzo P.E.C. per il ricevimento degli atti  ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) e presso la stessa domiciliato in Roma alla Via dei Portoghesi 12, giusta delibera del Consiglio dei Ministri adottata nella riunione del 10 agosto 2016,

contro

la Regione Veneto, in persona del Presidente della Giunta Regionale in carica, con sede in Venezia, Palazzo Balbi – Dorsoduro, 3901 – Venezia.

per la declaratoria

di illegittimità costituzionale degli articoli 55; 65; 66, commi 1 e 2; 68, comma 1; 69, comma 2 e 71 della legge della Regione Veneto del 27 giugno 2016, n. 18, pubblicata nel BUR n. 63 del 1° luglio 2016, recante “disposizioni di riordino e semplificazione normativa in materia di politiche economiche, del turismo, della cultura, del lavoro, dell’agricoltura, della pesca, della caccia e dello sport”

per violazione

degli artt. 3; 23; 117, comma 1, e 117, comma 2, lett. s), Cost.


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Con legge regionale n. 18 del 27 giugno 2016, pubblicata nel BUR n. 63 del 1° luglio 2016 la Regione Veneto ha emanato norme di riordino e semplificazione normativa in materia di politiche economiche, del turismo, della cultura, del lavoro, dell’agricoltura, della pesca, della caccia e dello sport.

In particolare, l’art. 55 ha aggiunto il comma 1 ter all’art. 19 della l.r. n. 19 del 1998, concernente la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per l’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione; l’articolo 65 ha modificato l’articolo 14 della legge regionale n. 50/1993, concernente “Norme per la protezione della fauna selvatica ed il prelievo venatorio”, inserendo i commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies: l’articolo 66, commi 1 e 2, ha modificato l’art. 18 della l.r. n. 50/1993, sostituendo il comma 1 ed introducendo il comma 1-bis; l’articolo 68, comma 1, ha modificato il quinto comma dell’articolo 24 della predetta l.r. n. 50/1993, sostituendo le parole “di cui ai commi 8, 9, 11 e 12 dell’articolo 21” con le parole “di cui ai commi 5, 5-bis, 5-ter, 8, 9, 11 e 12 dell’articolo 21”; l’articolo 69, comma 2, ha inserito il comma 3-bis nell’articolo 20 della l.r. n. 50/1993; l’articolo 71 ha introdotto misure per il contenimento del cormorano.

Tali disposizioni si espongono a censure di incostituzionalità per i seguenti motivi di

DIRITTO:

1. Illegittimità costituzionale dell’art. 55 della l.r. Veneto n. 18 del 2016 per violazione degli artt. 3 e 23 Cost.

L’articolo 55 aggiunge il comma 1 ter all’articolo 9 della l.r. n. 19 1998, recante “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”. Tale norma consente alla Regione di istituire, nelle acque non oggetto di concessione, “eventuali oneri ulteriori, per i non residenti in Veneto, mediante provvedimento della Giunta regionale”.

La norma è formulata in modo generico, in quanto non specifica quali “eventuali oneri ulteriori per i non residenti in Veneto” il legislatore regionale ha inteso introdurre.

Da ciò consegue che la determinazione della tipologia e della misura dell’onere è interamente rimessa ad un provvedimento amministrativo della Giunta regionale, in violazione dell’art. 23 della Costituzione, in base al quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base ad una norma di legge statale o regionale, che contenga principi direttivi sufficientemente specifici e dettagliati.

Qualora poi detti oneri dovessero riguardare una tassa di concessione, avente natura tributaria, si determinerebbe anche una manifesta violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 cost. In tal caso, infatti, la norma censurata attribuirebbe alla Giunta regionale il potere di imporre con proprio provvedimento amministrativo un tributo a carico dei soli cittadini “non residenti in Veneto”, in contrasto con il carattere di generalità dell’imposizione fiscale, generando ingiustificate discriminazioni nell’applicazione del tributo stesso.

 

2. Illegittimità dell’art. 65 della l.r. Veneto n. 18 del 2016, per violazione dell’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in riferimento all’articolo 12, comma 5; all’articolo 31, comma 1, lett. a), ed all’articolo 32, comma 4, nonché all’articolo 14, commi 1 e 5, della legge n. 157/1992.

Occorre premettere che nell’ordinamento nazionale la normativa vigente in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio è contenuta nella legge quadro 11 febbraio 1992, n. 157, concernente “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”. Secondo la pacifica giurisprudenza di codesta Corte Costituzionale tale legge stabilisce i principi fondamentali sulla salvaguardia della fauna selvatica, che è riconducibile alla materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.; principi fondamentali che, in quanto tali, devono essere rispettati sull’intero territorio nazionale (Corte Cost. n. 233/2010).

Secondo la giurisprudenza di codesta Corte Costituzionale, “spetta allo Stato, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stabilire standard minimi e uniformi di tutela della fauna, ponendo regole che possono essere modificate dalle Regioni, nell’esercizio della loro potestà legislativa in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell’innalzamento del livello di tutela” (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2103, n. 278, n. 116 e n. 106 del 2012).

L’articolo 65 della legge regionale impugnata si pone in contrasto con le vincolanti disposizioni contenute nella predetta legge quadro.

Esso introduce modifiche all’articolo 14 della legge regionale n. 50/1993 concernente “Norme per la protezione della fauna selvatica ed il prelievo venatorio”, inserendo i commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies.

In particolare, i commi 1-bis e 1-ter, in combinato disposto con il comma 1-quinquies, consentono a che abbia optato per la forma di caccia da appostamento fisso, di disporre di quindici giornate di caccia in forma vagante; mente per chi ha optato, nella stagione venatoria in corso, per la caccia in forma vagante in Zona Alpi o comunque in altre forme, di usufruire di quindici giornate di caccia da appostamento fisso. La fruizione di dette giornate non necessita, da parte del cacciatore, di alcuna richiesta o adempimento, salvo l’obbligo di segnalare sul tesserino venatorio, ad inizio della giornata venatoria, la giornata di caccia utilizzata.

Tale disciplina contrasta con l’articolo 12, comma 5, della legge n. 157/1992 che così dispone “Fatto salvo l’esercizio venatorio con l’arco o con il falco, l’esercizio venatorio stesso può essere praticato in via esclusiva in una delle seguenti forme: a) vagante in zona Alpi; b) da appostamento fisso; c) nell’insieme delle altre forme di attività venatoria consentite dalla presente legge e praticate nel rimanente territorio destinato all’attività venatoria programmata”.

La norma nazionale non consente, pertanto, il “cumulo” delle diverse forme di esercizio venatorio come, invece, previsto dalla disposizione regionale.

A tal riguardo, codesta Corte Costituzionale ha affermato che “l’art. 12, comma 5, della legge n.157 del 1992 ha introdotto il principio cosiddetto della caccia di specializzazione, in base al quale, fatta eccezione per l’esercizio venatorio con l’arco o con il falco, ciascun cacciatore può praticare la caccia in una sola delle tre forme ivi indicate (“vagante in zona Alpi”; “da appostamento fisso”; “nelle altre forme” consentite dalla citata legge “e praticate sul restante territorio destinato all’attività venatoria programmata”). Il cacciatore è tenuto, dunque, a scegliere, nell’ambito di tale ventaglio di alternative, la modalità di esercizio dell’attività venatoria che gli è più consona, fermo restando che l’una forma esclude l’altra. Tale criterio di esclusività che vale a favorire il radicamento del cacciatore in un territorio e, al tempo stesso, a sollecitarne l’attenzione per l’equilibrio faunistico, trova la sua ratio giustificativa nella constatazione che un esercizio indiscriminato dell’attività venatoria, da parte dei soggetti abilitati, su tutto il territorio agro-silvo-pastorale e in tutte le forme consentite rischierebbe di mettere in crisi la consistenza delle popolazioni della fauna selvatica” (punto 2.1. della parte in diritto della sentenza n.116/2012; cfr anche la sentenza n. 278/2012).

Pertanto, la normativa regionale che prevede l’esercizio cumulativo di diverse forme di caccia deroga in peius  alla normativa nazionale sopra citata, introducendo soglie di tutela minore rispetto alla normativa nazionale, la quale, concorrendo alla definizione del nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, “stabilisce…. una soglia uniforme di protezione da osservare su tutto il territorio nazionale (con riguardo a previsioni di analoga ispirazione, sentenze n.441 del 2006, n. 536 del 2002, n. 168 del 1999 e n. 323 del 1998): ponendo, con ciò, una regola che - per consolidata giurisprudenza di questa Corte – può essere modificata dalle Regioni, nell’esercizio della loro potestà legislativa residuale in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell’innalzamento del livello di tutela (soluzione che comporta logicamente il rispetto dello standard minimo fissato dalla legge statale: ex plurimis, sentenza n.106 del 2011, n.315 e n.193 del 2010, n.61 del 2009)” (Corte Cost. n.116/2012 e n.278/2012). Detta normativa nazionale si inquadra, dunque, nell’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che è riservata alla potestà legislativa esclusiva statale dall’art.117, secondo comma, lettera s), Cost.

Si deve, pertanto, evidenziare che ai sensi dell’articolo 31, comma 1, lett. a) della legge n. 157/1992, chiunque eserciti la caccia in una forma diversa da quella prescelta ai sensi dell’art. 12, comma 5, è punito con una sanzione amministrativa da euro 206 ad euro 1.239. Il successivo articolo 32, comma 4, prevede, oltre alla sanzione amministrativa, la sospensione per un anno della licenza di porto di fucile per uso di caccia.

La difformità della legge regionale da quella statale si riflette quindi anche sui presupposti per l’applicazione della disciplina sanzionatoria, che è anch’essa sottratta alla potestà legislativa della regione.

Alla luce di quanto esposto, l’articolo 65 della legge regionale Veneto n. 18 del 2016, che introduce i commi 1-bis, 1-ter ed 1-quinquies all’articolo 14 della legge regionale n. 50/1993, nella parte in cui consente la pratica dell’esercizio venatorio in via non esclusiva, viola l’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost., in riferimento all’articolo 12, comma 5, 31, comma 1, lett. a) e 32, comma 4 della legge n. 157/1992.

Il comma 1-quarter dell’articolo 14 della legge regionale n. 50/1993, come introdotto dalla norma regionale in esame, consente altresì ai cacciatori che abbiano optato per l’insieme delle altre forme di attività venatoria, la possibilità di esercitare l’attività venatoria alla fauna migratoria, per trenta giorni, in tutti gli Ambiti Territoriali di Caccia.

Tale comma si pone in contrasto con quanto previsto dal combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’articolo 14 della legge n. 157/1992 secondo cui: “1. Le regioni, con apposite norme, sentite le organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e le province interessate, ripartiscono il territorio agro-silvo-pastorale destinato alla caccia programmata ai sensi dell’art.10, comma 6, in ambiti territoriali di caccia, di dimensioni subprovinciali, possibilmente omogenei e delimitati da confini naturali [.....].

5. Sulla base di norme regionali, ogni cacciatore, previa domanda all’amministrazione competente, ha diritto all’accesso in un ambito territoriale di caccia o in un comprensorio alpino compreso nella regione in cui risiede e può avere accesso ad altri ambiti o ad altri comprensori anche compresi in una diversa regione, previo consenso dei relativi organi di gestione”.

Codesta Corte Costituzionale ha chiarito che con la legge n. 157 del 1992 il legislatore statale “ha inteso perseguire un punto di equilibrio tra il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale e l’interesse – pure considerato lecito e meritevole di tutela – all’esercizio dell’attività venatoria, attraverso la previsione di penetranti forme di programmazione dell’attività di caccia” (sentenza n. 4 del 2000), e che “il legislatore statala ha voluto, attraverso la ridotta dimensione degli ambiti stessi, pervenire ad una più equilibrata distribuzione dei cacciatori sul territorio, e, attraverso il richiamo ai confini naturali, conferire specifico rilievo - in chiave di gestione, responsabilità e controllo del corretto svolgimento dell’attività venatoria – alla dimensione della comunità locale, più ristretta e più legata sotto il profilo storico e ambientale alle particolarità del territorio […]” (sentenza n. 142/2013). Alla stregua di tali principi è stata dichiarata incostituzionale una norma della regione Abruzzo che consentiva l’indiscriminato esercizio della caccia alla selvaggina migratoria in tutti gli ambiti territoriali.

Sulla base di tali principi, appare evidente che il nuovo comma 1-quarter dell’articolo 14 incorre in fondate censure di costituzionalità perché non consente di garantire affatto l’equilibrata distribuzione dei cacciatori nell’esercizio dell’attività venatoria, alla stregua di quanto, invece, segnatamente previsto dall’articolo 14 delle legge n. 157 del 1992 che sancisce il principio della caccia programmata, costituente uno degli obiettivi fondamentali della normativa in materia.

In sostanza, l’articolo n. 65, comma 1, della legge regionale impugnata, che introduce il comma 1-quarter all’articolo 14 della regionale n. 50/1993, si pone in contrasto con l’articolo 117, comma 2, lett. s) , Cost., per violazione della normativa interposta di cui all’articolo 14, commi 1 e 5, della legge n. 157/1992.

3. Illegittimità dell’art. 66, commi 1 e 2, della l.r. Veneto n. 18 del 2016, per violazione dell’articolo 117, primo comma, Cost. per contrasto con l’articolo 7 della direttiva 79/409/CEE, e dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost., in riferimento all’art. 10; all’art. 18, commi 1, 1-bis e 2, ed agli articoli 30, comma 1, lett. a) e 31, comma 1, lett. a) della legge n. 157 del 1992.

L’articolo 66, commi 1 e 2, modifica l’art. 18 della legge regionale n. 50/1993, sostituendo il comma 1 ed introducendo il comma 1-bis. Più precisamente, i nuovi commi dispongono che “1. Le Province istituiscono le zone di cui alla lettera e) del comma 2 dell’articolo 9, destinate all’allenamento, all’addestramento e allo svolgimento delle gare dei cani da caccia anche su fauna selvatica naturale o con l’abbattimento di fauna dell’allevamento appartenente alle specie cacciabili.

1-bis. Le attività di cui al comma 1 possono svolgersi durante tutto l’anno”.

La norma in esame consente quindi che l’attività di addestramento e svolgimento delle gare dei cani da caccia possano effettuarsi, anche su fauna selvatica naturale e con l’abbattimento di fauna d’allevamento, durante tutto l’anno.

Interessa preliminarmente osservare che con le sentenze n. 578/1990, n. 350/1991, n. 339/2003, codesta Corte Costituzionale ha ritenuto che l’addestramento dei cani, in quanto attività strumentale all’esercizio dell’attività venatoria, è riconducibile alla disciplina della “caccia”, ed è pertanto assoggettato ai divieti previsti dalla normativa quadro statale, costituita dalla legge 11 febbraio 1992, n.157. Infatti, la disciplina della caccia è riconducibile alla materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ed è pertanto riservata alla competenza legislativa  dello Stato, ai sensi dell’art.117, secondo comma, lett. s), Cost.. Ne consegue che i suoi principi devono essere rispettati sull’intero territorio nazionale e sono vincolanti per il legislatore regionale.

In particolare, con sentenza n. 350 del 1991 codesta Ecc.ma Corte ha ritenuto che “nessun dubbio può sussistere in ordine al fatto che “addestramento dei cani”, in quanto attività strumentale all’esercizio venatorio, debba ricondursi alla materia della caccia (…)”). Sebbene enunciato sotto la vigenza della precedente disciplina nazionale prevista dalla legge 27 dicembre 1977, n. 968, tale principio può essere rapportato anche alla legge n. 157 del 1992, posto che le due normative disciplinano in materia analoga la materia. Ed invero, “se è pur vero che l’assimilazione dell’attività in questione non può essere spinta fino alla totale identificazione (così questa Corte, nella citata sentenza del 1991, e il Consiglio di Stato, nella decisione 17 aprile 2009, n. 4706), e che pertanto si può giustificare per essa una disciplina diversa da quella generale della caccia, ciò non esclude che tale disciplina debba essere dettata con le stesse modalità fin qui delineate. Solo così, infatti, l’acquisizione dei pareri tecnici – su cui si è concentrato il contraddittorio – diviene un passaggio naturale e formale di quella pianificazione che il legislatore ha voluto, come garanzia di un giusto equilibrio tra i molteplici interessi in gioco” (Corte Cost. punto 7.4 del “considerato in diritto della sentenza n. 193/2913).

Pertanto, l’attività di addestramento dei cani da caccia è assimilabile a quella venatoria e, dunque, deve rispettare gli standard minimi e uniformi di tutela della fauna in tutto il territorio nazionale e le relative garanzie procedimentali.

La censurata disciplina regionale contrasta in primo luogo con l’art. 10 della legge n. 157/1992, recante “Norme per la  protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio”, che prevede l’obbligo delle regioni di predisporre i piani faunistico-venatorio, finalizzati a garantire la conservazione delle specie mediante la riqualificazione delle risorse ambientali e la regolamentazione del prelievo venatorio.

In base al comma 1 di tale norma “tutto il territorio agro-silvo-pastorale nazionale è soggetto a pianificazione faunistico-venatoria”.

Viene così affermato il principio di caccia programmata, con cui, come già osservato, il legislatore ha inteso perseguire un punto di equilibrio tra il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale e l’interesse all’esercizio dell’attività venatoria (cfr. sentenze Corte cost. n. 4 del 2000 e n. 142 del 2013).

Tale programmazione si articola in più livelli: i principi fondamentali sono stabiliti dal legislatore statale, giusta legge n. 157 del 1992, la funzione di indirizzo è esercitata su base nazionale dall’ISPRA mediante il documento orientativo sui criteri di omogeneità e congruenza per la pianificazione faunistico-venatoria di cui all’art. 10, comma 11, della citata legge; la funzione attuativa è attribuita dal comma 2 dello stesso art. 10 alle regioni e alle province, le quali, “con le modalità previste nei commi 7 e 10, realizzano la pianificazione di cui al comma 1 mediante la destinazione differenziata del territorio”.

La normativa statale, dunque, delinea una complessa disciplina procedimentale, che garantisce un’istruttoria approfondita e trasparente e che tale tende ad assicurare che la pianificazione si svolga sull’intero territorio nazionale con le medesime garanzie sostanziali.

Ciò implica, in particolare, l’obbligo delle Regioni di attenersi all’attività di indirizzo dell’ISPRA, specie con riferimento alla disciplina dei periodi di esercizio dell’attività venatoria. Infatti, “la disciplina statale che delimita il periodo entro il quale è consentito l’esercizio venatorio è ascrivibile al novero delle misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, rientrando nella materia della tutela dell’ambiente vincolante per il legislatore regionale” (Corte Cost., sentenza n. 191 del 2011 che richiama le sentenze n. 233 e n. 193 del 2010, n. 272 del 2009 e n. 313 del 2006).

Con riguardo all’attività pianificatoria, il comma 8, lettera e), del citato art. 10 dispone che i piani faunistico-venatorio indichino “le zone e i periodi per l’addestramento, l’allenamento e le gare di cani anche su fauna selvatica naturale…”, anche al fine di compenetrare le esigenze della cinofilia venatoria.

In base all’articolo 7 della legge n. 157/1992, l’ISPRA è l’organismo che ha il compito di censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica, di studiarne lo stato, l’evoluzione ed i rapporti con le altre componenti ambientali, nonché di controllare e valutare gli interventi faunistici operati dalle regioni e dalle province autonome, formulando i pareri tecnico-scientifici richiesti dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome.

Orbene, nei pareri rilasciati alle Regioni ai fini della stesura dei calendari venatori, l’ISPRA indica il mese di settembre come periodo iniziale dell’addestramento dei cani da caccia, in quanto lo svolgimento di tale addestramento in periodo precedente (o comunque durante tutto l’anno) “determina un evidente e indesiderabile fattore di disturbo, in grado di determinare in maniera diretta o indiretta una mortalità aggiuntiva per le popolazioni faunistiche interessate. Questa attività andrebbe consentita solo nel periodo che precede l’apertura della caccia in forma vagante, in ogni caso mai prima dei primi di settembre ed escludendo quindi i mesi che vanno da febbraio a agosto” (parere ISPRA 22 agosto 2012).

Inoltre, le disposizioni regionali impugnate si pongono in contrasto con l’articolo 18, commi 1, 1 bis e 2, della legge n. 157/1992, che – in attuazione dell’art. 7 della direttiva n. 79/409/CEE – detta disposizioni sulle specie cacciabili e sui periodi in cui è consentito il prelievo venatorio. Invero, la citata norma della direttiva CEE stabilisce che: “In funzione del loro livello di popolazione, della distribuzione geografica e del tasso di riproduzione in tutta la Comunità le specie elencate nell’allegato II possono essere oggetto di atti di caccia nel quadro delle legislazione nazionale”.

In base ad essa, il comma 1 dell’articolo 18 delle legge n. 157 del 1992 contempla appositi elenchi nei quali sono individuate le specie cacciabili, i relativi periodi in cui ne è autorizzato il prelievo venatorio, nonché i procedimenti diretti a consentire eventuali modifiche a tali previsioni. Come affermato da codesta Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2010, “l’art.18 garantisce, nel rispetto degli obblighi comunitari contenuti nella direttiva n. 79/409/CEE, standard minimi e uniformi di tutela della fauna sull’intero territorio nazionale […] in quanto indica il nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica il cui rispetto deve essere assicurato sull’intero territorio nazionale”.

Inoltre  il comma 1-bis dispone che “L’esercizio venatorio è vietato, per ogni singola specie:

  1. durante il ritorno al luogo di nidificazione;
  2. durante il periodo della nidificazione e le fasi della riproduzione e della dipendenza degli uccelli”.

Il successivo comma 2 stabilisce che i termini in cui è consentito l’esercizio dell’attività venatoria “possono essere modificati per determinate specie in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali. Le regioni autorizzano le modifiche previo parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. I termini devono essere comunque contenuti tra il 1° (gradi) settembre ed il 31 gennaio dell’anno nel rispetto dell’arco temporale massimo indicato al comma 1. L’autorizzazione regionale è condizionata alla preventiva predisposizione di adeguati piani faunistico-venatori”.

Tali disposizioni sono violate dalle disposizioni regionali in esame, che invece consentono l’attività di addestramento e lo svolgimento delle gare dei cani da caccia durante tutto l’anno, così incidendo in un ambito attribuito alla competenza esclusiva del legislatore statale.

Infine, occorre evidenziare che anche in questo caso la disciplina regionale, nel modificare le condizioni per l’esercizio dell’attività di addestramento e di allenamento dei cani da caccia, incide sulla normativa sanzionatoria contenuta nell’articolo 30, comma 1, lett. a), della legge n. 157/1992 (che dispone l’arresto da tre mesi ad un anno o l’ammenda da euro 929 a euro 2.582 per chi esercita la caccia in periodo di divieto generale, intercorrente tra la data di chiusura e la data di apertura fissata dall’art. 18) e nell’articolo 31 , comma 1, lett. a (che prevede la sospensione della licenza di porto di fucile per uso di caccia, per un periodo da uno a tre anni). Anche sotto questo profilo la normativa regionale invade indebitamente competenze riservate al legislatore statale.

Conclusivamente, l’articolo 66 della legge regionale n. 18/2016 nel consentire l’attività di addestramento e lo svolgimento delle gare dei cani da caccia durante tutto l’anno, viola l’articolo 117, primo comma Cost. per contrasto con l’articolo 7 della direttiva 79/409/CEE, e l’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost. per contrasto con gli articoli 10, comma 8, lett. e), 18, comma 1, 1-bis e  2,30, comma 1, lett. a) e 31, comma 1, lett. a) della legge n. 157/1992.

4. Illegittimità dell’art. 68, commi 1, della l.r. Veneto n. 18 del 2016, per violazione dell’articolo 117, comma 2, lett. s) Cost. in riferimento all’articolo 14, comma 10, della legge n. 157/1992.

L’articolo 68, comma 1, della legge regionale in oggetto, modifica il quinto comma dell’articolo 24 della legge regionale n. 50/1993 prevedendo che le parole  “di cui ai commi 8,9,11 e 12 dell’articolo 21siano sostituite con le parole “di cui ai commi 5,5-bis, 5-ter,8,9 11 e 12 dell’articolo 21”.

L’articolo 24 disciplina i Comprensori alpini stabilendo che allo stesso si applicano i comuni 5, 5-bis, 5-ter, 8,9,11 e 12 dell’articolo 21 riguardante gli organi degli ambiti territoriali di caccia.

Ai sensi dell’articolo 24, comma 2, legge regionale n. 50 del 1993, il Comprensorio Alpino di caccia è una struttura associativa senza fini di lucro, che persegue scopi di programmazione dell’esercizio venatorio e di gestione della fauna selvatica su un territorio delimitato dal piano provinciale. Il suo comitato direttivo, a seguito della modifica introdotta dalla legge regionale in esame, è composto – tra gli altri – anche da “tre rappresentanti designati dalle strutture locali delle associazioni venatorie riconosciute a livello nazionale o regionale”.

L’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992 sancisce, invece, che “Negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza paritaria, in misura pari complessivamente al 60 per cento dei componenti, dei rappresentanti di strutture locali delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e delle associazioni venatorie nazionali riconosciute, ove presenti in forma organizzata sul territorio. Il 20 per cento dei componenti è costituito da rappresentanti di associazioni di protezione ambientale presenti nel Consiglio nazionale per l’ambiente e il 20 per cento da rappresentanti degli enti locali”.

Detta disposizione prevede, dunque, che negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia debba essere assicurata la presenza paritaria delle associazioni venatorie, esclusivamente con riferimento a quelle nazionali riconosciute.

Codesta Corte Costituzionale ha affermato che “il principio di rappresentatività, di cui al citato art.14 , comma 10, della legge n. 157 del 1992, ha carattere inderogabile (sentenza n.299 del 2001) e in particolare, che detta disposizione, nello stabilire “i criteri di composizione degli organi preposti alla gestione dell’attività venatoria negli ambiti territoriali individuati secondo le modalità indicate, fissa uno standard minimo ed uniforme di composizione degli organi stessi che deve essere garantito in tutto il territorio nazionale” (sentenza n.165 del 2009)” (Corte Cost. n. 268/2010. Nello stesso senso, più di recente, cfr. sentenza n. 124/2016).

Con la recente ordinanza n. 133/2015 codesta Corte ha esaminato l’articolo 21, comma 5, della legge regionale Veneto 50/1993, come modificato dall’articolo 22 della legge regionale Veneto n. 37/1997, disciplinante gli ambiti territoriali di caccia, affermando che “l’art. 21, comma 5, della legge impugnata, relativo agli Ambiti territoriali di caccia, non si applica alla nomina dei componenti del Comitato direttivo dei Comprensori alpini, come si desume chiaramente anche dall’art. 24, comma 5, ove sono indicati i commi dell’art. 21 applicabili ai Comprensori alpini, senza menzionare il comma 5. […]”.

A seguito della modifica introdotta con la disposizione in esame, viene esteso anche alle associazioni venatorie riconosciute a livello regionale la disciplina concernente la rappresentanza negli organi direttivi degli Ambiti territoriali di caccia e dei Comprensori alpini. In tal modo, il sistema di rappresentanza negli organi direttivi dei suddetti Comprensori non rispetta “lo standard minimo” imposto dall’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992,  che costituisce una disposizione a tutela dell’ambiente e che, come tale, ha carattere vincolante per il legislatore regionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Alla luce delle precedenti considerazioni, ad avviso del Presidente del Consiglio ricorrente l’articolo 68, comma 1, della legge regionale in oggetto, nell’estendere la disciplina prevista dai commi 5, 5-bis, e 5-ter dell’articolo 21 della legge regionale n. 50/1993 ai consigli direttivi dei Comprensori Alpini, si pone in contrasto con l’articolo 117, comma 2, lett. s) Cost., in riferimento all’articolo 14, comma 10, della legge n. 157/1992.

5. Illegittimità dell’art. 69, comma 2, della l.r. Veneto n. 18 del 2016, per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost., in riferimento all’articolo 12, commi 2 e 3; all’articolo 21, comma 1, della legge n. 157/1992, ed all’articolo 30 , comma 1, lett. i), della legge n. 157 del 1992.

L’articolo 69, comma 2, della legge in esame inserisce il comma 3-bis nell’articolo 20 della legge regionale n. 50/1993 prevedendo che “dove non in contrasto con la disciplina sull’uso dei mezzi a motore, in territorio lagunare e vallivo e più in generale nelle zone umide, quali laghi, fiumi, paludi, stagni, specchi d’acqua naturali o artificiali, è ammesso l’uso della barca a motore quale mezzo di trasporto per raggiungere e ritornare dagli appostamenti di caccia. E’ altresì ammesso l’uso della barca per il recupero della fauna selvatica ferita o abbattuta. Il recupero è consentito anche con l’ausilio del cane e del fucile, entro un raggio non superiore ai duecento metri dall’appostamento”.

Tale norma  si pone in contrasto con la disciplina statale che, contenendo i principi generali dell’attività venatoria ed afferendo alla materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ha carattere vincolante per il legislatore regionale.

Secondo l’articolo 12, commi 2 e 3, della legge n. 157/1992, “2. costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l’impiego dei mezzi di cui arll’art.13.

3. E’ considerato altresì esercizio venatorio il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla”.

Pertanto, in base alla disciplina statale il recupero dei capi feriti, anche  con l’ausilio dei cani o con l’uso delle armi di cui all’articolo 13 della legge statale, è considerato esercizio venatorio, e sono ad esso applicabili i divieti e le garanzie proprie di tale attività.

In particolare, trova applicazione l’articolo 21, comma 1, della legge n. 157/1992 secondo cui: “E’ vietato a chiunque: […] i) cacciare sparando da veicoli a motore o da natanti o da aeromobili”.

Ancora una volta, la modifica introdotta dal legislatore regionale finisce per incidere indebitamente sulla disciplina sanzionatoria prevista dalla normativa statale, in quanto modifica i presupposti del fatto illecito. Specificatamente, viene modificato l’ambito di applicazione dell’articolo 30, comma 1, lett. i), della legge n. 157 del 1992, che dispone “l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a lire 4.000.000 (euro 2.065) per chi esercita la caccia sparando da autoveicoli , da natanti o da aeromobili”.

Pertanto, l’articolo 69, comma 2, che inserisce il comma 3-bis nell’articolo 20 della legge n. 50/1993, prevedendo  la possibilità per il cacciatore, anche con l’ausilio del fucile, di recuperare la fauna selvatica abbattuta tramite l’utilizzo di barca a motore, si pone in contrasto con l’articolo 117, comma 2, lett. s) Cost. per violazione della normativa interposta di cui agli articoli 12, commi 2 e 3, 21, comma 1, lett. i) e 30, comma 1, lett. i) della legge n. 157/1992.

6. Illegittimità dell’art. 71 della l.r. Veneto n. 18 del 2016, per violazione dell’articolo 117, comma 1, Cost., per contrasto con l’articolo 9 della direttiva 2009/147/CE, e dell’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in riferimento agli articoli 19, comma 2 e 19-bis della legge n. 157 del 1992.

L’articolo 71 della legge regionale impugnata introduce misure per il contenimento del cormorano (Phalacrocorax carbo).

Al riguardosi deve evidenziare che la specie Cormorano non rientra nell’elenco delle specie cacciabili ai sensi dell’articolo 18 della legge n. 157/1992.

L’articolo 19-bis di tale legge dispone, tuttavia, che “le regioni disciplinano l’esercizio delle deroghe previste dalla direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009, conformandosi alle prescrizioni dell’articolo 9, ai principi e alle finalità degli articoli 1 e 2 della stessa direttiva ed alle disposizioni della presente legge.

2. Le deroghe possono essere disposte dalle regioni e province autonome, con atto amministrativo, solo in assenza di altre soluzioni soddisfacenti, in vai eccezionale e per periodi limitati. Le deroghe devono essere giustificate da un’analisi puntuale dei presupposti e delle condizioni e devono menzionare la valutazione sull’assenza di altre soluzioni soddisfacenti, le specie che ne fanno oggetto, i mezzi, gli impianti e i metodi di prelievo autorizzati, le condizioni di rischio, le circostanze di tempo e di luogo del prelievo, il numero dei capi giornalmente e complessivamente prelevabili nel periodo, i controlli e le particolari forme di vigilanza cui il prelievo è soggetto e gli organi incaricati dalla stessa […]”.

L’articolo 71 qui censurato contrasta con quanto previsto dall’articolo 9 della direttiva  2009/147/CE e dall’articolo 19-bis della legge n. 157/1992, perché non indica le condizioni necessarie per accedere al regime di deroga, né tantomeno le modalità e i requisiti necessari per l’applicazione della stessa.

Nel parere motivato relativo alla procedura di infrazione 2006/2131, la Commissione europea ha affermato che “[…] sono contrarie alla direttiva le legge regionali che contengono già l’indicazione esplicita della specie che potranno essere oggetto di deroga ex articolo 9 in quanto identificano già in maniera generale ed astratta e senza limiti di tempo le specie oggetto della deroga mentre, nel sistema della direttiva, la deroga è un provvedimento eccezionale di carattere provvedimentale, che viene adottato in base ad una precisa e puntuale analisi dei presupposti e delle condizioni di fatto stabilite dall’articolo 9. La normativa che recepisce le condizioni di adozione delle deroghe deve disciplinare le modalità, le procedure e le attribuzioni delle autorità competenti ma non può identificare a priori l’oggetto della stessa deroga, poiché questo è il risultato dell’analisi di una situazione di fatto che varia di volta in volta. La previsione delle specie oggetto della deroga già nelle disposizioni della legge si colloca fuori dell’obbiettivo della deroga, in quanto costituisce un’autorizzazione all’esercizio regolare della caccia a specie di uccelli protette (non cacciabili) ai sensi della direttiva” (Punto 32 del parere motivato).

Codesta Ecc.ma Corte ha inoltre chiarito che “il potere di deroga di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE è esercitabile dalla Regione in via eccezionale, “per consentire non tanto la caccia, quanto, piuttosto, più in generale, l’abbattimento o la cattura di uccelli selvatici appartenenti alle specie protette dalla direttiva medesima” (sentenza n. 168 del 1999). […] il legislatore regionale, nello stabilire che l’esercizio delle deroghe avvenga attraverso una legge - provvedimento, ha introdotto una disciplina in contrasto con quanto previsto dal legislatore statale al cennato art. 19-bis. In particolare, l’autorizzazione del prelievo in deroga con legge preclude l’esercizio del potere di annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei ministri dei provvedimenti derogatori adottati dalle Regioni che risultino in contrasto con la direttiva comunitaria 79/409/CEE e con la legge n. 157 del 1992; potere di annullamento finalizzato a garantire una uniforme ed adeguata protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale”. (Corte Cost. n. 250/2008).

Il successivo comma 4 dell’articolo 71, inoltre, disciplina l’elenco dei soggetti autorizzati al prelievo degli animali, indicando: “a) la polizia provinciale e locale; b) gli agenti venatori volontari; c) le guardie giurate; d) gli operatori della vigilanza idraulica; e) i proprietari o conduttori di aziende vallive dedite all’acquacoltura e fondi agricoli; f) i soggetti muniti di licenza per l’esercizio dell’attività venatoria; g) altri soggetti all’uopo autorizzati dalle province e Città metropolitana di Venezia”.

Tale disposizione si pone in contrasto con l’articolo 19, comma 2, della legge n. 157/1992, che prevede che i piani di abbattimento “devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno altresì avvalersi dei proprietari  o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio”.

Il citato articolo dispone quindi che i piani di abbattimento devono essere attuati esclusivamente dalle guardie venatorie provinciali, dai proprietari e conduttori dei fondi e dalle guardie forestali e comunali.

A tal riguardo, codesta Ecc.ma Corte ha riconosciuto che “l’identificazione delle persone abilitate all’attività in questione compete esclusivamente alla legge dello Stato e che, al riguardo, l’art. 19 della legge n. 157 del 1992 contiene un elenco tassativo (sentenza n. 392 del 2005; ordinanza n. 44 del 2012)” (sentenza n. 107 del 2014).

La normativa regionale ampliando il novero dei soggetti preposti ad attuare gli interventi di controllo contravviene alle finalità dell’articolo 19 sopra citato che contiene un elenco tassativo anche allo scopo di assicurare una attenta ponderazione al fine di evitare che la tutela degli interessi sanitari, di protezione delle produzioni zootecniche, di selezione biologica ecc…, perseguiti con i piani di abbattimento, possa determinare una compromissione della sopravvivenza di altre specie faunistiche.

I piani di abbattimento, infatti, sono presi  in considerazione solo come extrema ratio ed esclusivamente per scopi di tutela dell’ecosistema, non trattandosi, chiaramente, di attività svolta a fini venatori (sul punto sentenza Corte Cost. n. 392/2005). A tal riguardo, l’articolo 19, comma 2, contiene un elenco tassativo di soggetti autorizzati all’esecuzione di tali piani (guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali, proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani di abbattimento, guardie forestali e guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorie), nel quale non sono compresi i cacciatori, come, invece, prevede la norma censurata alla lett. f)

L’articolo 19 della legge n. 157 del 1992 “nella parte in cui disciplina i poteri regionali di controllo faunistico, costituisce un principio fondamentale della materia a norma dell’art. 117 della Costituzione, tale da condizionare e vincolare la potestà legislativa regionale […]. La rigorosa disciplina del controllo faunistico recata dall’art. 19 della legge n. 157 del 1992 è infatti strettamente connessa all’ambito di operatività della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione di uccelli selvatici” (sentenza n. 392/2005 e n. 135/2011).

Da ciò consegue che le norme statali rappresentano un limite invalicabile per l’attività legislativa della Regione, in quanto precedono norme imperative che devono essere applicate sull’intero territorio nazionale per soddisfare ed essere coerenti con le primarie esigenze di tutela ambientale. Alla luce delle precedenti considerazioni, l’articolo 71 della legge regionale in esame viola l’articolo 117, primo e secondo comma, Cost. per contrasto con l’articolo 9 della direttiva 2009/147/CE e con gli articoli 19, comma 2 e 19-bis della legge n. 157/1992.

*****

Per questi motivi il Presidente del Consiglio dei Ministri propone il presente ricorso e confida nell’accoglimento delle seguenti

CONCLUSIONI:

“Voglia l’Ecc.ma Corte Costituzionale dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 55; 65; 66, commi 1 e 2; 68, comma 1; 69, comma 2, e 71 della legge della Regione Veneto del 27 giugno 2016, n. 18, pubblicata sul BUR n. 63 del 1° luglio 2016, recante “Disposizioni di riordino e semplificazione normativa in materia di politiche economiche, del turismo, della cultura, del lavoro, dell’agricoltura, della pesca, della caccia e dello sport”

per violazione

degli artt. 3; 23; 117,comma 1, e 117, comma 2, lett. s), Cost.

Si producono:

1) copia della legge regionale impugnata;

2) copia conforme della delibera del Consiglio dei Ministri adottata nella riunione del 10 agosto 2016, recante la determinazione di proposizione del presente ricorso, con allegata relazione illustrativa.

 

Roma, 23 agosto 2016

 

L’Avvocato dello Stato Maria Letizia Guida

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