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Scarica versione stampabile Sentenza ed Ordinanza

Bur n. 88 del 24 ottobre 2008


Sentenze e ordinanze

Ordinanza n. 309 del 10 luglio 2008 emessa dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto sul ricorso proposto da Liassidi Srl ed altro c/ Comune di Venezia.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Terza Sezione, con l’intervento dei signori magistrati:

Angelo De Zotti    Presidente

Angelo Gabbricci Consigliere - relatore

Marina Perrelli       Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA 

sul ricorso n. 2211/07, proposto da Liassidi Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, Stefano Caputo, ricorrente anche in proprio, entrambi rappresentati e difesi dall'avv. A. Giuman, con domicilio eletto presso il suo studio in Venezia, S. Croce 466/G;

contro

il Comune di Venezia, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Gidoni e Ballarin, con domicilio eletto presso la civica avvocatura in Venezia, S. Marco 4091, per l'annullamento, quanto al ricorso principale

a) del provvedimento 3 ottobre 2007, prot. 405763, del dirigente della Direzione attività produttive, sviluppo economico - SUAP servizi amministrativi - U.O.C. pubblici esercizi del Comune di Venezia con cui è stata respinta la richiesta per una nuova autorizzazione di pubblico esercizio di tipo B;
b) dell'ordinanza 20 luglio 2007, n. 384, del sindaco di Venezia;
c) per quanto possa occorrere e nei limiti dell'interesse del ricorrente,

1) dell'ordinanza 17 marzo 1997, n. 36876 del sindaco di Venezia;
2) della deliberazione 6 maggio 2003, n. 261, della giunta comunale di Venezia;
3) dell'ordinanza comunale 16 aprile 2007, n. 2007.157;

e, quanto al ricorso per motivi aggiunti,

d) del provvedimento 28 novembre 2007, prot. 2007.495953, del Dipartimento salvaguardia dell'ambiente e sviluppo socio economico - Area funzionale SUAP servizi amministrativi - servizio regolamentazione e contenzioso commerciale del Comune di Venezia con cui è stata nuovamente respinta la richiesta sub a;

e) e per quanto occorrer possa, e nei limiti dell'interesse,

4) dell'ordinanza comunale 10 febbraio 2006, n. 60;

5) delle deliberazioni n. 70/1993 e n. 53011/1999 del consiglio comunale di Venezia;

6) della circolare 28 settembre 2006 del Ministero dell'Industria;

7) degli atti impugnati sub c1 e c2;

e per la condanna della Amministrazione resistente al risarcimento dei danni patiti dalla parte ricorrente.

Visto il ricorso con i relativi allegati ed i successivi motivi aggiunti;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Venezia;

Viste le memorie prodotte dalle parti;

Visti gli atti tutti di causa;

Uditi nella pubblica udienza del 13 marzo 2008 - relatore il consigliere avv. Angelo Gabbricci - l'avv. Giuman per la ricorrente e l'avv. Gidoni per l'Amministrazione resistente;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO E DIRITTO

1.1. - Liassidi Srl è proprietaria del Liassidi Palace, un immobile in Venezia, sestiere di Castello 3045, destinato ad albergo.

Al piano terreno si trova il bar, al quale possono attualmente accedere soltanto gli ospiti dell'albergo; e proprio per estendere l'accesso agli avventori esterni, nel settembre 2007 Liassidi richiese al Comune un'autorizzazione per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande di tipo B.

1.2. - La richiesta fu respinta con il provvedimento 3 ottobre 2007, prot. 405763, con la motivazione che non erano disponibili licenze, essendosene esauriti i contingenti stabiliti con l'ordinanza sindacale 17 marzo 1997, n. 36876, emessa in applicazione delle disposizioni di cui alla legge n. 287/91 ed all'art. 2 della legge n. 25/96.

1.3. - Il diniego era gravato con il ricorso principale in esame, ma veniva poco dopo sostituito dal nuovo diniego 28 novembre 2007, a sua volta qui impugnato con motivi aggiunti, e che costituisce l'effettivo oggetto del presente giudizio.

1.4. - Nel nuovo provvedimento si riconosce, anzitutto, che la citata ordinanza sindacale 17 marzo 1997, n. 36876, era stata in realtà annullata dalla sentenza 3330/07 della V Sezione del Consiglio di Stato.

Peraltro, prosegue il provvedimento, il Comune di Venezia, non condividendo la motivazione di tale decisione, la quale presuppone la tacita abrogazione della legge n. 287/91 per effetto del d.lgs. n. 114/98, ha “riadottato una nuova ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007”, fondata, all'opposto, sulla persistente vigenza di quelle disposizioni, e per la quale, ai fini “dell'applicazione della legge n. 287/91 e dell'art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25, saranno rilasciate nuove autorizzazioni di pubblico esercizio esclusivamente nei casi di cessazione, revoca o decadenza”.

Il diniego prosegue rammentando come, ai sensi dell'ordinanza comunale 10 febbraio 2006, n. 60, le domande per le autorizzazioni di pubblici esercizi vadano presentate nei soli mesi di marzo, giugno, settembre e dicembre, ed a fronte delle stesse vengano messe a disposizione ”le autorizzazioni cessate nel trimestre antecedente”.

Nella fattispecie, “nel trimestre antecedente al mese di settembre non si sono verificate, in Venezia centro storico, cessazioni revoche o decadenze di pubblico esercizio”; inoltre, “a tutt'oggi i locali di pubblico esercizio presenti nel territorio comunale sono in numero tale da soddisfare pienamente i bisogni di fruizione sia dei residenti che dei turisti, vista la progressiva diminuzione dei residenti in centro storico, come risulta dalle elaborazioni del Servizio statistica e ricerca del Comune di Venezia, che va a bilanciare l'aumento dei flussi turistici”.

In conclusione, il provvedimento 28 novembre 2007, dopo aver annullato in autotutela il diniego del precedente 3 ottobre, dispone “di respingere l'istanza della Ditta Liassidi Srl per mancanza di disponibilità di autorizzazioni di pubblico esercizio” per le motivazioni sopra compendiate.

2.1. - Non mette conto esaminare il ricorso principale, per il quale l'interesse è evidentemente cessato, mentre è necessario esporre i motivi aggiunti, riferiti al diniego del 28 novembre, cominciando dal primo, il quale può essere sintetizzato nella violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241/90: il diniego non è stato preceduto da un avviso sui motivi ostativi all'accoglimento, affatto necessario tenendo conto della discrezionalità dei poteri esercitati.

Il motivo va respinto, giusta art. 21-octies legge n. 241/90, venendo qui impugnato un provvedimento meramente applicativo dell'ordinanza sindacale n. 384/07: la conclusione del procedimento, relativo alla specifica autorizzazione richiesta dalla Liassidi, non avrebbe dunque potuto essere diverso, quale fosse stato l'apporto procedimentale dell'interessata.

2.1.1. - Il secondo ed il terzo motivo richiedono un'articolata premessa.

Invero, come accennato sub 1.4., riformando una sentenza di questa Sezione (20 dicembre 2004, n. 4394) il Consiglio di Stato, con la decisione 21 giugno 2007, n. 3330, ha annullato, anzitutto, il provvedimento con cui il Comune di Venezia aveva rifiutato ad altri una licenza per la somministrazione di alimenti e bevande, rilevando, anche in quel caso, che i contingenti prefissati erano esauriti; inoltre, la stessa sentenza ha anche annullato i provvedimenti generali con cui tali contingenti erano stati determinati.

Quel Collegio, per giungere a tale impegnativo esito, ha affermato che il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, recante la riforma della disciplina relativa al settore del commercio, avrebbe tacitamente abrogato per incompatibilità tutte le disposizioni su cui si fondava (non solo, ovviamente nella città di Venezia) il contingentamento dei pubblici esercizi.

2.1.2. - Invero, il d.lgs. n. 114/98, dopo aver definito, all'art. 1, comma 1, l'oggetto delle disposizioni in esso contenute quali “principi e norme generali sull'esercizio dell'attività commerciale”, all'art. 4, comma 1, lett. b), precisa che per “commercio al dettaglio” si intende “l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale”.

Tale sarebbe, secondo la sentenza 3330/07, “senza possibilità di dubbio, il contenuto dell'attività della somministrazione di alimenti e bevande, che pertanto rientra a tutti gli effetti tra le attività commerciali”, ed a conferma di tale assunto, prosegue la sentenza, “l'art. 27 del medesimo d.lgs. n. 114, a proposito del commercio al dettaglio su aree pubbliche, menziona, espressamente, accanto alla vendita di merci, la somministrazione di alimenti e bevande”.

2.1.3. - La sentenza 3330/07 si occupa a questo punto di stabilire come le previsioni del d.lgs. n. 114/98 abbiano inciso “sui contenuti precettivi delle fonti di livello primario che il Comune di Venezia ha posto a fondamento dei provvedimenti impugnati, e precisamente l'art. 3, comma 4, della legge n. 287 del 1991, l'art. 15 del d.l. n. 512 del 1992, poi reiterato nell'art. 16 del d.l. n. 48 del 1993, infine trasfuso nell'art. 2 della legge 5 gennaio 1996 n. 25”: disposizioni il cui nucleo essenziale consiste “nella facoltà accordata ai comuni di individuare, con riguardo alla apertura di esercizi di vendita di alimenti e bevande, un parametro numerico, ossia un contingente massimo di autorizzazioni assentibili, con conseguente divieto di consentire, in zone predeterminate, l'espansione di tali attività commerciali oltre la misura prestabilita”.

Orbene, tale potestà sarebbe “incompatibile con i principi della nuova disciplina del commercio emanata con il d.lgs. n. 118 del 1998”, e segnatamente con l'art. 2, per il quale l'attività commerciale si fonda sul principio della libertà di iniziativa economica privata ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione ed è esercitata nel rispetto dei principi contenuti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato”.

Il legislatore del 1998 “ha ritenuto non compatibile con i principi comunitari e con l'art. 41 della Costituzione un sistema di contingentamento che si risolveva nella salvaguardia delle posizioni economiche costituite in determinate zone del territorio comunale, con evidente pregiudizio della libera iniziativa, della libertà del mercato e dell'interesse dei consumatori”: e, per conseguenza, “debbono ritenersi illegittimi i provvedimenti adottati in applicazione di altre norme anteriori al d.lgs. n. 114 del 1998, autorizzanti la fissazione di parametri numerici nel rilascio delle autorizzazioni commerciali, che si risolvono nella chiusura del mercato a nuove iniziative imprenditoriali da parte di soggetti provvisti dei requisiti di legge”.

2.2. - Le argomentazioni contenute nella sentenza 3330/07 sono riprese da Liassidi nel secondo motivo, compendiato nella violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 114/1998 e, in particolare, degli artt. 1, 2, 4 e 27 del medesimo decreto e nella violazione dell'art. 41 Cost.

Sarebbe ormai acquisito, secondo la ricorrente, che il d.lgs. n. 114/98 trova applicazione anche al settore della somministrazione, abrogando tutte le precedenti disposizioni che, anche in tale ambito, avevano fondato il potere di contingentamento.

L'ordinanza sindacale n. 384/07, qui impugnata, va espressamente di contrario avviso: come già esposto, nella motivazione il Comune esclude che il d.lgs. n. 114/98, abbia abrogato la legge n. 287/1991, e stabilisce un nuovo contingentamento delle autorizzazioni.

La decisione del Comune sarebbe però errata: e da qui l'illegittimità derivata del diniego emesso nei confronti della ricorrente, fondato appunto sull'ordinanza n. 384/07.

2.3. - Il terzo motivo, a sua volta, è sintetizzato nella violazione dell'art. 3, legge n. 241/90 e nell'eccesso di potere per contraddittorietà e perplessità dei motivi.

Invero, l'affermazione, contenuta nell'ordinanza n. 384/07, per cui il Comune non condivide la sentenza n. 3330/07, mancherebbe di un'adeguata motivazione che un siffatto precedente avrebbe imposto.

2.4. - Il quarto motivo, poi, è stato rubricato nell'eccesso di potere sotto il profilo sintomatico dello straripamento.

L'ordinanza sindacale, preso atto della sentenza d'illegittimità dei precedenti provvedimenti di contingentamento, li ripropone: sarebbe allora evidente l'intento, espressamente dichiarato, del resto, di “eludere il pronunciamento del Supremo Consesso Amministrativo”.

3.1. - Orbene, il Collegio ritiene che, in questa sede, l'infondatezza delle censure testè esposte vada verificata solo sommariamente, nella misura cioè necessaria a dimostrare che la questione di costituzionalità, di seguito prospettata, in riferimento ad altro motivo, è rilevante: nel senso che il ricorso non verrebbe accolto, o non verrebbe accolto con il maggior profitto per l'interessato, se tale questione non fosse sollevata.

3.2. - Così, per svolgere tale sommaria delibazione d'infondatezza, si può intanto osservare come la sentenza n. 3330/07 includa la somministrazione tra le forme di commercio al dettaglio, senza considerare che ciò è smentito proprio dalla riprodotta definizione di commercio al dettaglio ex art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 114/98, (sopra sub 2.1.2.): notoriamente, il consumatore nella somministrazione non riceve la stessa merce che il venditore ha acquistato, ma un servizio più complesso, di cui le materie prime sono soltanto una componente, talvolta anche marginale.

3.3. - Del resto, l'attività di commercio al minuto e quella di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande sono tenute ben distinte nell'ordinamento.

È bensì vero che la previgente legge 11 giugno 1971, n. 426, era genericamente intitolata alla disciplina del commercio, ma tuttavia separava poi, al suo interno, le attività di commercio vero e proprio, all'ingrosso ed al dettaglio, da quella di somministrazione al pubblico di alimenti o bevande in sede fissa.

A sua volta, il precitato art. 4 del d.lgs. n. 114/98, intitolato “definizioni e ambito di applicazione”, non include, tra le molte, una definizione di somministrazione, mentre quella di commercio al dettaglio, come si è visto, è inadeguata a definire la somministrazione di alimenti e bevande.

3.4. - Il d.lgs. n. 114/98, insomma, contiene una disciplina del commercio in senso ristretto, salvo che per il settore della vendita su aree pubbliche, per la quale l'art. 27 specifica che “Ai fini del presente titolo”, che è il decimo, “si intendono per commercio sulle aree pubbliche, l'attività di vendita di merci al dettaglio e la somministrazione di alimenti e bevande effettuate sulle aree

pubbliche”.

Ora, è evidente, da un canto, che la definizione è qui speciale e derogatoria, e, dall'altro, che anche in essa la somministrazione continua ad esistere come attività distinta e non sovrapponibile al commercio al dettaglio, disciplinato nei precedenti nove titoli.

Del resto, se il legislatore avesse avuto un intento diverso, avrebbe certamente abrogato in forma espressa la legge 25 agosto 1991, n. 287, la quale non compare invece nell'elenco, contenuto nell'art. 26, di atti non più vigenti, alcuni dei quali assai meno rilevanti di quella.

4.1. - Insomma, il d.lgs. n. 114/98 non ha abrogato la legge n. 287/91, nè le ulteriori norme che disciplinano il contingentamento delle attività di somministrazione; e la sentenza 21 giugno 2007, n. 3330, nella quale il giudice d'appello afferma l'opposto, appare piuttosto come un atto di volontà, anticipatore della nuova disciplina della materia, contenuta nell'art. 3 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248, e di cui meglio si dirà oltre.

4.2. - D'altronde, la sentenza n. 3330/07 non poteva vincolare il Comune di Venezia oltre il limite soggettivo del giudicato, e dunque il divieto di assumere nuovi provvedimenti, di contenuto analogo a quelli annullati, riguardava soltanto coloro che era stati parti in quel giudizio (ovvero i loro eredi ed aventi causa, giusta art. 2909 c.c.).

Pertanto, riferendosi agli atti qui oggetto d'impugnazione, non si può appropriatamente affermare che essi siano stati emessi in elusione - ovvero in violazione - del giudicato costituito da quella decisione.

È vero, piuttosto, che l'Ente, com'era del resto nei suoi poteri, ha deciso di non recepire (come, peraltro la massima parte degli enti territoriali) l'interpretazione proposta dal Consiglio di Stato, con quella che resta, per ora, una decisione isolata.

D'altronde, la scelta, espressa nell'ordinanza sindacale n. 384/07, di non approvare le conclusioni cui era pervenuta quella decisione non si fonda su valutazioni di opportunità - queste si da motivare appropriatamente - ma di legittimità, di cui conta la correttezza sostanziale, che va apprezzata dal giudice, e che questo Collegio in effetti condivide.

5.1.1. - Respinti così, allo stato, i primi quattro motivi di ricorso, si può allora passare al quinto, rubricato nella violazione dei citato art. 3 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazione nella legge 4 agosto 2006, n. 248.

Questo dispone al primo comma, tra l'altro, che “le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte” senza i limiti e le prescrizioni di seguito elencati, tra cui, sub d), “il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale”.

Il seguente III comma, poi, abroga le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale, incompatibili con quelle di cui al comma 1.

5.1.2. - Da tale previsione, rileva la ricorrente, discende l'abrogazione dell'art. 3 della legge n. 287/91, nonchè dell'art. 2 della legge n. 25/96 e, dunque, di ogni contingente numerico nel rilascio delle autorizzazioni di somministrazione.

Al contrario, osserva Liassidi, l'ordinanza sindacale n. 384/07 ha confermato la suddivisione in zone del territorio comunale in funzione del rilascio delle autorizzazioni alla somministrazione: ma la fissazione “di un tasso di concentrazione per zona dei pubblici esercizi” (emblematico quello di 160 licenze per il sestiere di S. Marco) altro non significherebbe che una determinazione di quote di mercato, in violazione del ripetuto art. 3, lett. d).

5.2. - Il sesto motivo è compendiato nell'eccesso di potere per motivazione generica ed insufficiente, carenza d'istruttoria, contraddittorietà manifesta e sviamento; violazione dell'art. 3, legge n. 287/901 ed art. 2 legge n. 25/96; eccesso di potere per violazione dell'art. 3 legge n. 241/90.

Anche a concedere che l'Amministrazione disponesse tuttora dei poteri di contingentamento esercitati, i parametri ottimali applicati corrisponderebbero a quelli stabiliti nel 1997, senza che sia stata giustificata la loro persistente attualità: questa, tuttavia, mancherebbe sicuramente considerata la trasformazione profonda dei flussi turistici e delle presenze residenziali intervenuta nel periodo.

5.3. - Il settimo motivo non è che un corollario del precedente: i provvedimenti gravati non considerano che i bar annessi agli hotel garantiscono il servizio oltre l'orario ordinariamente garantito dalla massima parte dei bar cittadini, e che raramente eccede le 22.

6.1. - Gli ultimi due motivi non si possono senz'altro considerare infondati.

Invero, non appare facilmente giustificabile la decisione di riferirsi, per giustificare scelte amministrative in un settore così sensibile, a dati acquisiti un decennio prima, tanto più in un'epoca generalmente caratterizzata da rapide e profonde trasformazioni nelle abitudini e nelle presenze residenziali e turistiche, e certo non soltanto sul territorio veneziano.

6.2. - È peraltro subito da aggiungere che tali censure, quando fossero accolte, produrrebbero per l'interessato un livello di soddisfazione assai modesto.

L'interesse legittimo qui fatto valere è, infatti, di natura formale e procedimentale, e non garantisce per tale in alcun modo il soddisfacimento della pretesa, e l'attribuzione del bene della vita, qui costituito dall'avvio dell'attività di somministrazione al pubblico: solo se la nuova attività istruttoria - tra l'altro piuttosto complessa e dunque di non breve durata - dimostrasse, infine, che l'attuale numero di licenze è insufficiente, per Liassidi si aprirebbe la possibilità di ottenere l'autorizzazione richiesta.

6.3. - Ad esiti opposti condurrebbe invece l'accoglimento del quinto motivo.

Se, infatti, le autorizzazioni nel settore non possono essere più limitate per ragioni commerciali, il comune dovrebbe senz'altro emettere un provvedimento integralmente satisfattivo per la ricorrente, la quale, va ricordato, dispone già di uno spazio dedicato, immediatamente utilizzabile a tal fine: ed è dunque questa censura che deve essere con priorità esaminata.

7.1.1. - Orbene, il già citato d.l. n. 223/06 (sopra sub 5.1) introduce nell'art. 1 una disposizione programmatica, secondo cui le prescrizioni successive, comprese quelle di cui all'art. 3, qui d'interesse, recano “misure necessarie ed urgenti per garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea ed assicurare l'osservanza delle raccomandazioni e dei pareri della Commissione europea, dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle Autorità di regolazione e vigilanza di settore, in relazione all'improcrastinabile esigenza di rafforzare la libertà di scelta del cittadino consumatore e la promozione di assetti di mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio dell'economia e dell'occupazione, attraverso la liberalizzazione di attività imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro”.

7.1.2. - In particolare, l'art. 3, I comma, intitolato alle regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale, principia affermando che, ai sensi “delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonchè di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione, le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni”: e tra questi, sub d), “il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale”.

7.1.3. - Il terzo comma dello stesso art. 3, poi, abroga dalla sua entrata in vigore, e, cioè, dal 4 luglio 2006, “le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1”; il quarto comma, infine, dispone che “Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui ai comma 1 entro il 1° gennaio 2007”.

7.2. - La ricorrente, come detto, ritiene, che rientri tra le norme statali abrogate anzitutto l'art. 3 della legge n. 287/91, nella parte in cui esso dispone che l'apertura e il trasferimento di sede degli esercizi per la somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande sono soggetti ad autorizzazione del sindaco, con l'osservanza dei criteri e parametri di cui al comma 4 dello stesso articolo, i quali sono atti a determinare il numero delle autorizzazioni rilasciabili nelle aree interessate, e sono fissati dalle Regioni in relazione alla tipologia degli esercizi, tenuto conto anche del reddito della popolazione residente e di quella fluttuante, dei flussi turistici e delle abitudini di consumo extradomestico; ciascun Comune, seguita la disposizione, in conformità ai criteri e ai parametri stabilisce, eventualmente anche per singole zone del territorio comunale, le condizioni per il rilascio delle autorizzazioni.

Inoltre, sempre per effetto del d.l. n. 223/06 si dovrebbe ritenere abrogato anche l'art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25, in forza del quale sono i sindaci a fissare per le autorizzazioni un parametro numerico che assicuri, in relazione alla tipologia degli esercizi, “la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore ed il più equilibrato rapporto tra gli esercizi e la popolazione residente e fluttuante, tenuto anche conto del reddito di tale popolazione, dei flussi turistici e delle abitudini di consumo extradomestico”.

7.3. - Ora, l'ordinanza sindacale 20 luglio 2007, n. 384 - dunque successiva di oltre un anno all'entrata in vigore del d.l. n. 222/06 - su cui si fonda il diniego impugnato, stabilisce al primo punto che, “ai fini dell'applicazione della legge n. 287/91 e dell'art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25 saranno rilasciate nuove autorizzazioni di pubblico esercizio esclusivamente nei casi di cessazione, revoca o decadenza”.

Invero, affermare che il numero di tali autorizzazioni, da rilasciare in ciascun Comune, dipende da connotazioni riferibili alla popolazione presente su di una determinata area, equivale a correlare ad ogni autorizzazione una quota di mercato, costituita appunto dai potenziali acquirenti dei servizi di somministrazione che una determinata impresa di settore può fornire.

Sotto altro profilo, poi, il “volume delle vendite”, cioè il complesso dei corrispettivi percepiti per le prestazioni di somministrazione effettuate, è egualmente cruciale per stabilire quante autorizzazioni possano essere rilasciate in un determinato ambito, assicurando un profitto adeguato ai gestori: in altre parole, cioè, un nuovo pubblico esercizio potrà essere aperto soltanto se sia comunque assicurata la persistente redditività di quelli preesistenti.

7.4. - Un siffatto assetto non rafforza evidentemente “la libertà di scelta del cittadino consumatore”, ovvero “la promozione di assetti di mercato maggiormente concorrenziali”: al più essa continua ad assicurare un “equilibrato rapporto” tra gli esercizi, a loro utilità e con limitato profitto per i consumatori, tanto da non giustificare le pesanti restrizioni all'accesso di nuovi imprenditori.

D'altra parte, le disposizioni di cui alle leggi n. 287/91 e n. 25/96, non stabiliscono limitazioni alle autorizzazioni in funzione di interessi generali non commerciali, come quelli culturali, ambientali, sociali e così via, nè a questi fa comunque riferimento l'ordinanza sindacale impugnata; interessi che, d'altronde, trovano separata ed appropriata tutela nelle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria.

7.5. - Non sembra così necessario aggiungere altro per concludere che l'art. 3 della legge n. 287/91, per la parte prima riprodotta, e l'art. 2 della legge n. 25/96 stabiliscono limitazioni di programmazione, incompatibili con l'art. 3, I comma, lett. d) della legge n. 222/06 e devono dunque ritenersi abrogati dal 4 luglio 2006.

Tali disposizioni (così C. cost. 14 dicembre 2007, n. 430) confligge con la tutela della concorrenza, che l'art. 3 cit. realizza, con “finalità di ampliamento dell'area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007)”; si tratta, in altri termini, “dell'aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che è una delle leve della politica economica del Paese (sentenze n. 80 del 2006; n. 242 del 2005; n. 175 del 2005; n. 272 del 2004)”.

8.1. - A questo punto l'esito della causa sembrerebbe scontato, visto che l'ordinanza sindacale 384, pubblicata il 20 luglio 2007, si fonda su disposizioni all'epoca non più in vigore.

Così tuttavia non è, perchè due mesi dopo la pubblicazione della stessa ordinanza, è entrata in vigore la Lr 21 settembre 2007, n. 29, pubblicata sul Bur n. 84 del 25 settembre, la quale, per quanto d'interesse, ha sostanzialmente reintrodotto, in contrasto con il d.l. n. 223/06, le norme contenute nella legislazione statale previgente.

8.2. - Anzitutto, secondo la disciplina a regime di cui all'art. 33 della Lr n. 29/07, la giunta regionale, sentite le organizzazioni più rappresentative, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della legge, “emana i criteri cui i comuni si attengono nel determinare i parametri ed i criteri di programmazione per il rilascio delle autorizzazioni per l'esercizio, anche in forma stagionale, dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande”; e ciò “al fine di assicurare la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore tenendo anche conto dei flussi turistici e delle caratteristiche urbanistiche e di accessibilità nonchè delle vocazioni delle diverse parti del territorio regionale”.

8.3. - Invero, non può sfuggire come il testo riprodotto costituisca la parafrasi delle norme statali previgenti sopra richiamate, ed abrogate dal d.l. n. 223/06.

Il conflitto con quest'ultimo è poi ancora più evidente, se si tenga conto di quanto dispone il seguente art. 34, I primo, per cui i Comuni, entro centottanta giorni dalla pubblicazione dei predetti criteri regionali, a loro volta “emanano i parametri ed i criteri di programmazione per l'insediamento sul territorio comunale di nuove attività di somministrazione di alimenti e bevande, comprese quelle a carattere stagionale”.

Anche le norme finali e transitorie sono di specifico interesse: l'art. 38, I comma, prescrive infatti che, “Fino all'adozione da parte dei comuni dei parametri e dei criteri di cui all'articolo 34, ai fini del rilascio delle autorizzazioni, continuano ad applicarsi i parametri e i criteri attualmente vigenti”.

9.1. - In sintesi, le norme regionali in esame, anzichè adeguarsi dal 1° gennaio 2007 al d.l. n. 223/06, hanno reintrodotto, dapprima transitoriamente, ex art. 38, e poi a regime, un sistema di criteri e parametri regionali e comunali aventi le stesse finalità di quelli stabiliti dalle precedenti norme statali, come si desume già dal tenore letterale delle norme, sostanzialmente coincidente con quello delle disposizioni previgenti.

Il contrasto tra le citate disposizioni della Lr n. 29/07 e l'art. 3 della legge n. 248 sembra essere particolarmente evidente: e da ciò un significativo dubbio d'incostituzionalità delle stesse disposizioni.

9.2. - Invero, la Corte costituzionale, con la citata sentenza 14 dicembre 2007, n. 430, ha riconosciuto la piena costituzionalità dell'art. 3 del d.l. n. 223/06, impugnato in via principale per violazione dell'art. 117 Cost. proprio dalla Regione Veneto, secondo la quale la norma avrebbe avuto ad oggetto la disciplina del commercio, materia attribuita alla propria competenza legislativa residuale.

9.3. - La Corte ha dichiarato che la questione era infondata, stabilendo che la disciplina di cui all'art. 3, conformemente alla propria autoqualificazione, va ricondotta alla materia “tutela della concorrenza”, attribuita dall'art. 117, II comma, lettera e), Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, essendo lo stesso art. 3 effettivamente “strumentale ad eliminare limiti e barriere all'accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale”.

Esso s'inserisce, infatti, in un processo di modernizzazione del settore commerciale “all'evidente scopo di rimuovere i residui profili di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concorrenza”, sul presupposto che “il conseguimento degli equilibri del mercato non può essere predeterminato normativamente o amministrativamente, mediante la programmazione della struttura dell'offerta, occorrendo invece, al fine di promuovere la concorrenza, eliminare i limiti ed i vincoli sui quali ha appunto inciso la norma, che ha quindi fissato le condizioni ritenute essenziali ed imprescindibili per garantire l'assetto concorrenziale nel mercato della distribuzione commerciale”.

9.4. - Le disposizioni regionali in questione si pongono evidentemente in contrasto con i principi in materia di tutela della concorrenza, e dunque con l'art. 41 Cost.: e ciò, per gli artt. 33 e 34, vale a prescindere dall'approvazione dei criteri cui gli stessi fanno riferimento, perchè già la loro previsione, per le finalità indicate, comporta un'inammissibile restrizione protezionistica (altro è il caso in cui le limitazioni siano giustificate da ragioni di tutela ambientale: cfr. art. 34, II comma, Lr cit.).

9.5. - Peraltro, ancor prima, le stesse tre disposizioni in esame violano la sfera di competenza legislativa esclusiva riservata allo Stato giacchè abrogano sul territorio regionale (di fatto eludendo i contenuti della sentenza n. 430/07 della Corte) le disposizioni di cui all'art. 3 d.l. n. 223/06, con cui lo Stato ha dettato norm, ex art. 117, II comma, lett. e) Cost., in materia di tutela della concorrenza.

10.1. - Per quanto poi concerne la rilevanza della questione, l'effetto che le disposizioni regionali hanno nel presente giudizio è, anzitutto, quanto all'art. 38, I comma, di attribuire rinnovata validità all'ordinanza sindacale n. 384/07, la quale ha reintrodotto parametri e criteri commerciali per il rilascio delle autorizzazioni di somministrazioni a Venezia ed era certamente vigente, seppure illegittima, quando la norma transitoria è entrata in vigore.

Ne conseguirebbe allora che il quinto motivo, proposto con il ricorso giurisdizionale in esame, e fondata appunto sull'illegittimità dell'ordinanza sindacale, non potrebbe che essere respinto.

10.2. - A sua volta, la domanda risarcitoria proposta troverebbe pieno accoglimento ove fosse appurato il contrasto tra gli atti comunali ed i principi di liberalizzazione in materia di somministrazione a fronte dell'evidente possibilità per l'interessata di aprire immediatamente al pubblico il suo esercizio, attualmente riservato ai clienti dell'albergo.

Al contrario, la posizione lesa si ridurrebbe invece ad una mera chance, d'ampiezza incerta e comunque limitata, quando trovassero accoglimento soltanto gli ultimi due motivi, rispetto ai quali il rilascio dell'autorizzazione resterebbe una mera probabilità, correlata ad un'istruttoria di esito incerto.

10.3. - Anche le due norme a regime, peraltro, sono rilevanti in causa, poichè esse - siano o meno attualmente operative, come i loro termini acceleratori farebbero ritenere - comunque comportano l'abrogazione dell'art. 3 d.l. n. 223/06, per la parte d'interesse e precludono dunque alla Liassidi di ottenere senz'altro il rilascio del titolo richiesto, ed il risarcimento del danno sofferto.

11. - Si deve, in conclusione, disporre la sospensione del presente giudizio e la rimessione della questione all'esame della Corte costituzionale, giusta l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, per la decisione sulla prospettata questione di costituzionalità.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, III Sezione, solleva questione di legittimità costituzionale quanto all'art. 38, I comma, all'art. 33, I comma ed all'art. 34, I comma, della Lr 21 settembre 2007, n. 29, per contrasto con gli artt. 41 e 117 Cost., secondo quanto stabilito in motivazione.

Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della segreteria della sezione, che gli atti dello stesso siano trasmessi alla Corte costituzionale per la risoluzione della prospettata questione, e che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente della Giunta regionale, e comunicata al Presidente del Consiglio regionale del Veneto.

Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio, addì 13 marzo 2008.

 

Il Presidente                                                                                                      L'Estensore

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